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STAMPATERAMANANon ho condiviso l’”Appello degli intellettuali teramani per la stampa locale”. L’ho letto, riletto e non condiviso. Scrivono della “…preoccupante crisi dell’informazione nel Teramano con le recenti difficoltà dei quotidiani “La Città” – con la messa in cassa integrazione della gran parte dei giornalisti contrattualizzati – e “Il Centro” – con l’annunciato trasferimento della Redazione di Teramo a L’Aquila”.
L’ho letto, riletto e non condiviso.
Scrivono di “… crisi costante vede la politica, come anche le organizzazioni espressione degli interessi economici e sociali di questo territorio, scarsamente capaci di arginare l’indebolimento progressivo di un’intera collettività”.
L’ho letto, riletto e non condiviso.
Anzi: confesso che già il solo autocelebrarsi quali “intellettuali” mi rende, in queste occasioni, il documento, l’appello o il manifesto del tutto indigesto. Non che i firmatari non lo siano, anzi, ma non mi piace che se lo dicano. Il fatto che l’amico Elso, lamentando la scarsa attenzione che quel documento ha avuto, abbia però scritto di “…clima di acquiescenza, di conformismo e di pavidità che pervade il mondo del giornalismo locale”, pretende una risposta.
Perché la mia mancata condivisione non è acquiescente, né conformista, né pavida.

Anzi: è motivata e convinta.
E siccome, oltre a non essere acquiescente, conformista e pavido, non sono neanche ipocrita, sgombro subito il campo dalla facile lettura “vendicativa” della mia mancata condivisione. Certo, non è motivo di dolore per me leggere, tra quelli che rischiano di perdere il loro posto di lavoro, i nomi di quelli che hanno brindato, quando pensavano che io avessi perso il mio. Non piango, per il silenzio imposto alla firma di chi di quella firma mi deve l’esistenza, ma poi tramò perché la mia non avesse diritto di pubblicazione. Non soffro, nello scoprire che chi sentì dalla mia voce i motivi per i quali non meritava l’accesso in redazione, oggi ne viene allontanata. E certo non mi angosciano i disagi che soffrirà chi, mentre il portone di casa mia bruciava per un attentato, si concedeva vergognose illazioni sui motivi. E dirò anche che non mi stupisce lo scoprire che, mentre gli intellettuali si battono per la difesa delle redazioni, in una di quelle redazioni c’è chi si appresta a lasciare la scrivania, per andare ad occupare un posto pubblico creato ad hoc. E, tanto per non lasciare nulla di non detto, non ricordo di aver letto un identico appello mentre lasciavo - per aver difeso l’indipendenza della testata dalle ingerenze politiche - la direzione dl quotidiano che avevo fondato e diretto e del mensile che ogni mese arrivava nelle case di 17mila famiglie. Anzi: tra gli intellettuali che firmano oggi l’appello, riconosco la firma di chi ebbe spunti di gioia per la mia cacciata. Ognuno, in fondo, fa della propria lingua l’uso che crede.
Ma tutto questo non c’entra.
Ho del giornalismo un’idea e un rispetto che mi rendono, da sempre, diverso e lontano da quasi tutti i miei colleghi, ma non è per questo che ho letto, riletto e non condiviso l’appello degli intellettuali.
L’ho fatto, perché non è vero.
Non è vero che la crisi de La Città e la chiusura della redazione de Il Centro sono un attentato a quella libertà di stampa che “… necessita di competenze solide che sappiano essere garanzia di equilibrio, trasparenza e rispetto del pluralismo e che sappiano porsi in un rapporto diretto con la collettività”.
Come si può parlare di rischi per il pluralismo, in un città di 56mila abitanti che - e credo sia un fenomeno unico forse in Italia - può vantare le attenzioni di sette emittenti giornalistiche, con sei redazioni in città, sei telegiornali teramani, decine di trasmissioni, e almeno cinque testateweb che producono un flusso di informazioni costante, ben più preciso e puntuale di quello che un giornale “stampato” potrebbe - per ovvie ragioni - offrire?
Come si può temere che manchino “competenze solide” se quelli che oggi firmano quei telegiornali, sono in gran parte gli stessi che hanno occupato e animato la scena giornalistica locale (anche e soprattutto sui quotidiani “a stampa”) degli ultimi trent’anni?
Non c’è alcuna “preoccupante crisi dell’informazione nel Teramano”, numericamente parlando, ma c’è, quella sì, una progressiva e inevitabile crisi della stampa “stampata”.
Perché la carta costa, la stampa costa, la pubblicità manca, i lettori - specie i giovani - leggono solo sugli smartphone.
Le edicole chiudono. Non solo a Teramo.
E’ cambiato il mondo. Non la stampa teramana.
E non fa notizia. perché è storia già vissuta: questa città ha già perso la redazione del Tempo, poi quella del Messaggero, e anche allora, mentre pochissimi (quorum ego) gridavano al rischio vero e più grave della chiusura della redazioni, molti - intellettuali compresi - pensavano ad altro.
Perché il rischio vero non è “il pluralismo”, né la “libertà di stampa”, visto che la rete ha reso questi concetti ormai regole dell’esistenza stessa del web, ma la palestra.
La scomparsa delle redazioni mortifica le ambizioni di chi si sogna giornalista, perché il nostro è un mestiere e si impara a bottega. Benvengano le facoltà di Scienze della Comunicazione, benvengano i master e gli stage, ma senza la gavetta vera, quella che nasce dal confronto diretto, quotidiano, reale, immersivo e totale, non sarai mai un giornalista.
E allora la domanda è: quanto la crisi de La Città e la chiusura della redazione del Centro saranno “perdita” della palestra? Da quanto tempo, in quelle due redazioni non entra un ventenne carico di sogni, che abbia poi avuto la possibilità di restare, formarsi e diventare un giornalista? La crisi non comincia quando arriva la cassa integrazione o si chiude una redazione, la crisi è cominciata quando si è chiusa la “bottega”.
Ma la nostra città, sull’impoverimento “generale” della quale dovremmo e potremmo parlare ancora moltissimo, almeno dal punto di vista giornalistico, ha saputo reagire. Le redazioni delle tv stanno, sia pur timidamente e con attenzione, cominciando ad offrire nuovi spazi, a farsi di nuovo palestre. Non sta a me discutere con quale livello qualitativo, quello lo giudica chi ci legge e ci vede, ma di certo questo non è un momento storico che offende “le importanti tradizioni del giornalismo aprutino” e non c’è alcuna “deminutio oltraggiosa”.
Anzi: la tradizione continua.
Per questo non ho condiviso e non condivido l’appello degli intellettuali

Adamo

 

 

La foglia di fico è una rubrica di satira, di politica, di politica satirica e di satira politica