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PiediministraContinuo a pensare che la parità, per definizione, sia un’oscena e innaturale costrizione. Non nasciamo “paritari”, non nasciamo “uguali”, cerchiamo di esserlo, per imposizione di legge o di fede, ma è un artificio della logica, un vezzo umano, una deriva filosofica che tende, ed è comprensibile, a concedere a tutti una possibilità di esistere, di partecipare, di sentirsi uno tra i simili. 

In Natura, non funziona così.

Non esiste “uguaglianza”, non esiste parità, anzi: sono le diversità che rendono tutto complementare, equilibrato, interdipendente. Non si esiste per parità di genere, ma per necessità di genere. Tutti hanno un loro posto, conquistato nel viaggio millenario dell’evoluzione, fino a creare quel compiuto tetris che chiamiamo “ecosistema”.

Noi, no. 

Noi “sapiens”, no.

Noi ci imponiamo, per legge, una parità che non esiste. Creiamo “Commissioni per le pari opportunità” che, nel tempo, fraintendendo lo spirito originario, si sviliscono nella rincorsa a questa o quella iniziativa in rosa: la maglietta, il palloncino, il tavolinetto in piazza. “Pari opportunità” significava, ab origine, una sacrosanta battaglia per garantire a tutti le stesse identiche pari possibilità di riuscita, di lavoro, di studio, di affermazione professionale, di partecipazione alla vita democratica. Stesse possibilità, pari opportunità, nel rispetto di quelle diversità complementari che creano il nostro ecosistema. 

E invece, no.

Siamo andati oltre,

Le pari opportunità sono diventate pretesa di uguaglianza, fino alla ghettizzante proposta delle quote rosa e della parità di genere, fino a quella vergognosa rivendicazione della parità di genere che, in un delirio di politically correct, ha generato una legge che impone la conta matematica dei posti riservati alle donne. In politica. Nei cda. 

Non conta il merito. Non contano le capacità. Conta il genere. Con l’inevitabile scivolamento in una mediocritas affatto aurea, che imbarbarisce il senso stesso del ruolo. Se entri in una giunta solo perché sei una quota rosa, e non per meriti o per risultato elettorale, non coglierai mai il valore profondo di quel ruolo. E il passo successivo, vedrete, sarà fare della diversità di genere una regola così vincolante, che i Governi si faranno come i cast delle serie americane: un bianco caucasico, un nero, un asiatico, un ispanico, un anziano, una donna, un gay e una lesbica. Che siano o meno capaci o preparati, che importa?

Così, magari, non ci indignerà più vedere un ministro, pardon: una ministra (c’è un genere anche nella grammatica dei ruoli), come la 37enne grillina Fabiana Dadone, ministra delle politiche giovanili, che celebra l’8 marzo, vestita in un completo adatto alla rappresentanza, allungando i piedi taccati in rosso sulla scrivania ministeriale, impegnata a postare col suo cellulare (immagino pagato da noi) un pensiero altissimo: 

"In questa giornata tanto evocativa e tanto attenta al politically correct, vorrei dire con molta onestà che sul fronte della parità di genere c'è ancora molta strada da fare. Una strada in salita e piena di ostacoli culturali che dobbiamo avere la forza di affrontare con tutta la tenacia che abbiamo nel cuore. Buon 8 Marzo a tutte!".

Mi piacerebbe sapere quanti, uomini o donne, neri o caucasici, asiatici o ispanici, gay o lesbiche... abbiano oggi la “pari opportunità” di mettere, nel loro luogo di lavoro (sempre che un lavoro ce l’abbiano) i piedi sulla scrivania.

Inseguendo una parità di genere, abbiano creato una parità degenere.

Non siamo tutti uguali.

Per fortuna 

Adamo