Da giornalista, non mi sono mai interessato del Teramo Calcio, nel senso dell’evento sportivo. L’ho sempre lasciato fare ai colleghi “sportivi”, che lo sanno fare molto meglio di me. Un po’ perché non amo uno sport che consideri il pareggio un risultato, un po’ perché non amo le esasperazioni (anche quelle dei colleghi suddetti), ma soprattutto perché considero indegno di un Paese civile il carico “sociale” che si attribuisce a quello che è, in realtà, tutt’altro che un fenomeno “sociale”. Perché è dai tempi di Giovenale, che “panem et circenses” non hanno alcuna finalità sociale, anzi: sono la compiuta manifestazione di una strategia che mira a rendere la società non il fine, ma un mezzo per la riaffermazione del potere di chi, quel pane e quei giochi li garantiva. È così anche adesso… e hanno tolto anche il pane.
Da giornalista, mi sono sempre interessato, invece, delle vicende extrasportive del Teramo Calcio. E l’ho fatto più e meglio di tanti altri colleghi. L’ho fatto cercando di andare oltre le parole (sempre le stesse), oltre Il chiacchiericcio enfatico del precampionato, oltre le fritture d’aria dei programmi “per salire”. L’ho fatto guardando i fatti, non i risultati sportivi. Per questo, quando scrissi che il Teramo di Romy sarebbe fallito, perché i bilanci non lasciavano spazio ad alcuna altra possibilità, mi beccai un “Cicció, te metto sotto con la macchina” e il giornale che dirigevo venne cancellato dalla rassegna stampa della tv del presidente. Succede. Se fai il tuo lavoro. E io il mio l’ho fatto ponendomi sempre una domanda, sempre la stessa: perché qualcuno dovrebbe spendere soldi, tanti soldi, in un’attività che nella migliore delle ipotesi ti porterà qualche gioia e tanti insulti? Nessun guadagno e tante spese? Poche glorie e tanti dolori?
Certo, mi si risponderà: per passione.
Già, la passione.
Lasciamola da parte per un attimo, la passione. Ne riparleremo poi.
Torniamo ai fatti. “Io compro per fare un grande campionato, perché qui il grande calcio non l’avete mai visto”., mi disse Carlo Polverino, l’imprenditore campano venuto a comprare il Teramo, mentre l’intervistavo seduti ad un tavolino del Grand’Italia. Se ne andò qualche giorno dopo, e di grande lasció solo il ricordo di una spavalderia fuori luogo. “Noi veniamo a Teramo, perché vogliamo fare un grande campionato”, mi disse uno dei fratelli Paoloni (quello che parlava). Se ne andarono, anche loro, lasciando di grande solo l’amarezza di avergli concesso la passerella, con tanto di taglio del nastro, all’inaugurazione del Nuovo Stadio. Con lo sceicco, quello che venne per investire “capitali arabi” non ho mai parlato, le teste coronate non mi sono mai piaciute. Non fece in tempo a portare i suoi petrodollari, se ne andò …pare, anche senza pagare due Rolex presi in una nota gioielleria. Vabbè, se ne sarà dimenticato, capita.
E poi ancora il Gruppo Proietti, e prima quel commercialista vibratiano, e poi tanti altri salvatori della patria calcistica (e non solo calcistica, ricordo Laganà e la Teramo basket)… accolti sempre a braccia aperte, prima di andarsene quando capivano che no, comprare il Teramo non significava “fare affari a Teramo”, che non avrebbero avuto corsie preferenziali nella gestione di qualche appalto o nella concessione di qualche lottizzazione. Se ne andavano, tutti, quando capivano che qui c’era molto da dare e quasi nulla da prendere.
Eppure, in quella frazione infinitesimale del loro essere "teramani", hanno trovato accoglienza, tappeti rossi, ribalte autorevoli, interviste a pioggia. Come per gli indigeni al tempo del Nuovo Mondo, è bastato il riflesso di uno specchietto, lo sbrilluccichio di un vetro colorato, e abbiamo abbassato le difese.
Al contrario, questa città non ha mai risparmiato critiche e dolori a quei teramani che, invece, i soldi ce li hanno messi davvero. E tanti. Per avere, alla fine, un coro di insulti.
E qui torniamo a quel malinteso senso "sociale" del calcio, a quel frainteso senso di condivisione non condivisa che consente a chiunque il diritto di criticare un'azienda, sindacandone la gestione, pur senza essere proprietario di una sola azione.
Non è così. Questo è il peccato originale del calcio italiano, dal quale ci libereremo solo con una rivoluzione culturale che riassegni allo stadio il ruolo che gli compete, quello del teatro di un evento sportivo, non dell'arena gladiatoria.
E qui torniamo alla passione. Quella vera, quella che pretende emozioni. Quella sana, quella che sogna trionfi.
Quella passione, deve nutrirsi del rispetto assoluto per chi spende per consentire a quella stessa passione di avere possibilità di esistere. Benvengano le critiche, le polemiche, anche le contestazioni passionali, ma non si perda mai il limite del doveroso rispetto, perché quando viene meno quello, allora crolla tutto… e poi arrivano i “salvatori”. Io non so come andrà a finire la vicenda dei fratelli Ciaccia, ma so come sono andate a finire - umanamente, intendo, non sportivamente - quelle di Romy, di Campitelli e di Iachini. Che avranno fatto anche i loro errori, certo, forse tanti, forse troppi, ma hanno alimentato la passione. Hanno fatto in modo che questa città - alla quale non molto è ormai rimasto - avesse un suo palcoscenico sportivo, nel quale ritrovarsi per condividere una passione. L’hanno tenuta viva, anche per contrasto, ma viva. Per quello meritavano rispetto, e magari un “grazie” quando poi hanno deciso di passare la mano.
Invece, no. Insulti e minacce.
Onorando la più vera delle passioni teramane: la distruzione della teramanità.
Non ho mai visto passione nei progetti dei tanti “salvatori della patria” venuti in città, in un trionfo di aspettative spinte ben oltre la sana diffidenza che sempre, e ripeto sempre, si dovrebbe avere verso chi non si conosce. Ma sarà sempre così, se non capiremo che, prima di tifare per il Teramo, dovremmo imparare a tifare per Teramo.
ADAMO