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PIERPAOLOPASOLINI

Capita, a volte. Di rado, ma capita, che la sorte ti offra uno spunto, un frammento di idea, un dettaglio d’intuizione. Un momento di vita vissuta non da te, ma che parla di te.
Anzi: che parla per te.
M’è successo un pugno d’ore fa, non so neanche cosa andassi cercando in rete, anzi: sì, una foto della vecchia Teramo, e l’arcano algoritmo di Google m’ha offerto una pagina antica.
Più vecchia di me.
Scritta nel gennaio del terzo anno prima della mia nascita, per la precisione l’8 gennaio del 1961.
E’ un racconto breve, la cronaca minima (e per questo straordinaria) di un’Italia minore, marginale e periferica, di una «città che si attraversa in un momento» nella quale c’è «…una larga piazza con una fontana tonda – capolinea di autobus contadini» e poi «…un corso, la solita, torta borbonica – un duomo – una massa di vicoli, e gli sventramenti:  sacrileghi e stupidi».
Due righe e mezza, per scolpire l’immutabile dagherrotipo di una città come tante.
Solo che quella città era Teramo e la mano che firmava quelle righe, era quella di Pier Paolo Pasolini.
Sono passati sessantuno anni, che sembrano pochi, ma in realtà sono un’era geologica. Eppure, quella della Teramo che Pasolini attraversò per andare a mangiare «…le scr’pell’ ‘mbuss’, pacchetti di pasta con dentro del formaggio, pasta dolcemente ottusa e formaggio dolcemente acuto, dentro un brodo dorato», non è così diversa dalla Teramo di oggi.
Eravamo negli anni in cui si annunciava la “rinascita economica” (solo poi lo chiameremo boom), con parole non diverse da quelle che oggi annunciano le “ripartenze resilienti”. Allora si puntava alla realizzazione di una rete industriale, che affrancasse l’Italia dal sottosviluppo e dall’analfabetismo, così come oggi si punta alla realizzazione di una rete ultraveloce, che la affranchi dal sottosviluppo multimediale e dall’analfabetismo digitale.
Quella era la Teramo in parte da ricostruire e migliorare, perché sentiva ancora i dolori della guerra, la nostra è la Teramo in parte da ricostruire e migliorare, perché sente ancora i dolori del terremoto.
Ma è col tratteggio della Teramo politica, che Pasolini mi costringe ad un gioco di evidenze e richiami, di incastri e confronti, investigando nelle pieghe della “sua” Teramo e della “mia”, per scoprire che sono la stessa città.
E’ vero, l’autore di Mamma Roma riferisce, de relato, che a Teramo «..i cattolici e i fascisti qui vivono un particolare idillio: la tradizione clerico-fascista è antica, una categoria storica della città», ma non sembra poi tanto convinto, lo racconta più per compiacere, amplificandone il patimento politico, gli amici che l’hanno invitato, perché quella che legge con i suoi occhi è un’altra città e la legge negli occhi di un giovane «prestante e quasi imberbe», che «…si dice democristiano di sinistra: in realtà, dato anche che è così giovane, è semplicemente conformista. Anche come lui, ce n’è tanti ragazzi: ma l’unità che si compie in loro è l’unità del conformismo, ordinato dall’alto. Così l’Italia può essere sì, una, ma disperatamente provinciale. La borghesia non lascia altra alternativa. Voglio dire che anche la potente e illuminata borghesia neo-capitalistica milanese è provinciale».
Ed è in questo dettaglio che Pasolini, con quella capacità di lettura che ne fece e ne fa ancora una delle intelligenze più importanti del nostro Paese, intuisce il senso profondo di quella Teramo. Che è sì provinciale, democristriana (più o meno di sinistra), certo anche clerico-fascista, ma è anche viva. E vivace.
Quello che avverte, mentre pranza nella «trattoria molto paesana» è infatti «..una specie di impeto da cui molti italiani giovani sono trascinati, in questi ultimi tempi: c’è una specie di ansia d’informazione, di comprensione. La provincia è percorsa da notizie,  da forme di conoscenza di tipo nuovo, per l’Italia. C’è  quasi una assoluta contemporaneità nel meccanismo di assimilazione culturale fra i centri e la periferia: e la periferia non è più segnata dal tradizionalismo. A Teramo si parla degli stessi problemi che a Roma: pur essendo Teramo una città conservatrice. La figura del «passatista» è ormai del tutto irrilevante, in provincia: dato, del resto, che non esistono più le «avanguardie» al centro. Brulicano invece giovanotti che, addirittura con distacco quasi freddo, sono tematicamente al livello della cultura più progressiva. Se la potenza è in mano ai vescovi e ai prefetti, il tono culturale è, quanto meno, nelle mani dei giovani democristiani di sinistra».
E, in un attimo, intuisco che sì, l’era geologica è passata davvero. Perché se il potere è rimasto nelle mani di “vescovi e prefetti”, e se questa è ancora la città di una “borghesia provinciale” popolata da “democristiani di sinistra” e “clerico-fascisti”, quella che è totalmente scomparsa, estinta come i dinosauri, ma perché colpita dall’asteroide dell’ignoranza più gretta, è l’ "ansia d’informazione e di comprensione”. Questa è una città che, per colpa di tutti (sarebbe tanto facile quanto ipocrita incolpare la “politica” o peggio la “società”) si è ripiegata su sé stessa, contorcendosi in un limbo isolato e isolante, che l’ha condannata alla marginalità.
Culturale.
Sì, diciamolo, con la dolorosa ammissione che merita: siamo una città de-culturata, che ha abbassato la propria soglia dell’interesse fino a considerare “evento” anche l’accensione delle luminarie natalizie. Abbiamo mortificato i nostri desideri, fino a consentire che una casa dell’arte di livello, quale voleva e doveva essere l’Arca, ovvero una nostra finestra aperta sul mondo oltre, come un padiglione della Biennale traslato a Teramo, si svilisse al rango di contenitore di tutto e di più, alternativa più comoda della sala di via Nicola Palma. Abbiamo fatto dei nostri viaggi della cultura una regola, compiacendoci del nostro saper partire per una mostra, per un sipario, per un concerto, magari verso cittadelle non più grandi della nostra, ma più dotate di idee, e di spazi. Abbiamo consentito che, quasi senza voci contrarie, si spegnesse una tricipite stagione teatrale, che aveva fatto di Teramo un punto di riferimento nazionale.
Abbiamo chiuso il teatro. Un’altra volta. E stiamo qui a valutare come e cosa farne. Eppure, non c’è alternativa: Teramo non merita quell’orrendo scatolone di cemento, ma un teatro vero, con i palchi e il loggione, la torre scenica e il golfo mistico.
Fatelo anche moderno, se vi pare, ma fatelo presto.
Ci siamo impigriti, nell’indolenza molle di una burocrazia afasica, fino a rendere la parola “progetto” sinonimo di “utopia”, e ci ritroviamo con uno Stadio morto in pieno centro storico, cadavericamente appoggiato su una porzione di città che meriterebbe altro destino, così come lo meriterebbe la Casa dello sport e il palazzetto di scapriano. Perché anche lo sport è cultura, ma ormai lo si declina solo nell’inutile chiacchiericcio sulle sorti del “pallone”.
Abbiamo fatto del nostro essere teramani un disvalore, al punto che “andarsene” è diventato il verbo di quelli che vogliono “farcela” e solo pochi, anzi: pochissimi coraggiosi, hanno deciso di restare per dimostrare che sì, anche da qui, anche da Teramo, si possa fare musica, fumetto, arte per una platea grande quanto il Mondo. E quei pochissimi, li abbiamo isolati e confinati, invece che farne bandiere di una nuova età dell’interesse. Così come abbiamo isolato l'Ateneo, concedendogli  il privilegio di un orizzonte prospettico, ma che lo condanna alla visione di lontananza, visto che nonostante i proclami e le belle intenzioni, l'Università resta estranea, distante, alla prima fermata di un autobus immobile. 
Siamo una città lontana, culturalmente prima ancora che geograficamente, dai fermenti artistici e per la quale diventa sempre più difficile intercettare quei flussi di novità, quelle nuove folate di vento che portavano la Teramo attraversata da Pasolini “tematicamente al livello della cultura più progressiva”, e nessuno faccia l’errore di leggere in quel “progressiva” una connotazione politica, perché quando si parla di Cultura, progressivo vuol dire solo “culturale”. Perché non c’è cultura, se non si genera progresso e non c’è progresso che non generi cultura.
Pasolini contempla quella gioventù teramana e pensa «…che è in giovani come questi che comincia a attuarsi il saldamento tra Nord e Sud: è naturale!, lo spirito nazionale-popolare non può che salire dal basso. Quando essi saranno la maggioranza, spariranno le piccole storie locali, i particolarismi, le clientele, i gerghi, i dialetti».
Non poteva immaginare che, sessantuno anni dopo, Teramo sarebbe stata una città nella quale “le piccole storie locali, i particolarismi, le clientele, i gerghi, i dialetti” avrebbero fatto sparire quella popolazione di giovani affamati di sapere e di partecipazione.
Il Nord è sempre più lontano dal Sud.
E “provinciale” è sempre più un’offesa.
Non ho mai conosciuto la Teramo che vide Pasolini.
Però, mi manca.

ADAMO

 

SE VUOI (E TE LO CONSIGLIO) LEGGERE "UN GIORNO A TERAMO" DI PASOLINI, CLICCA QUI