La morte di Oscar, l’ultimo dei sette fratelli Tancredi ancora in vita, cristallizza storicamente la vicenda, intima e corale, personale e collettiva, di una famiglia che ha attraversato tutto il Ventesimo secolo, seguendo un sentiero che comincia a Miano, in una casa nella quale non c’erano scarpe per tutti (e alzarsi più tardi dei fratelli significava restare scalzi), e finisce tra i velluti e gli ottoni del Parlamento.
Una storia che si intreccia con la “Storia” di un Paese che cambiava rapidamente, forse anche più di quanto fosse in grado di fare, passando da quella che era la vita scandita dai tempi della campagna alla complicata quotidianità di una potenza economica. E di questa trasformazione, i Tancredi sono stati non solo spettatori, ma protagonisti, anche svolgendo un ruolo politico attivo e determinando, con il penultimo dei sette fratelli, Antonio, scelte che hanno cambiato la geografia urbana e il destino stesso di questa città, come le autostrade e l’università, solo per citarne due.
Ma non voglio scrivere di questo, perché la Prima Repubblica, quella di Antonio Tancredi, di zio Remo, della Dc teramana onnipotente, è ancora esperienza troppo recente, perché se ne possa tentare una lettura storica del tutto scevra da contaminazioni politiche.
O meglio: sono io, che una parte di quegli anni li ho vissuti raccontandoli da giornalista, che non riesco a leggerli con il necessario distacco, senza risentire di quello che sapevo essere il contorno politico di quel periodo.
Eppoi, ripeto, il tema di queste righe non è assegnare un posto nella Storia.
Ma raccontare una storia.
La storia di una donna teramana, madre di sette figli, che tra Natale e Capodanno del 1938, nel diciassettesimo anno dell’era fascista, nel terzo anno dell’Impero, prende carta e penna e scrive al Duce.
Si chiama Angeladurina Di Sabatino in Tancredi, ma la chiamano Angela Divina, quindi sarà per tutti “Vnatt’”.
Si definisce “massaia rurale”, scrive con le lettere garbate delle belle calligrafie imposte alle mani che sapevano domare i pennini, anche perché sa che da quella lettera potrebbe dipendere il destino di uno dei suoi figli, il maggiore, Carmine, che ha appena compiuto 17 anni e deve trovare un suo posto nella vita.
“Duce,
E’ una madre di numerosa famiglia che osa rivolgersi al suo nobile cuore. Sono madre di sette figli, tutti maschi, l’ultimo dei quali conta appena due anni”.
Poi, il motivo di quella lettera. Che è motivo serio e grave, e solo per quello “Vnatt” rompe il dignitoso silenzio che, sempre, avvolgeva i fatti delle nostre famiglie antiche.
“Mio marito, muratore, che col suo lavoro sosteneva la famiglia, è stato colpito da una paralisi che l’ha lasciato stordito, per questo che poche volte lavora”.
Dunque, c’è da dare una mano in famiglia e tocca a Carmine, il maggiore, che s’era appena diplomato alla Regia Scuola Industriale di Teramo, ma “essendo che a Teramo non c’è l’Istituto Industriale, ora è tornato qui”.
E “qui” è Miano, anzi: “Miano di Teramo”, e sette figli, tra i 2 e i 17 anni, sono tanti, tantissimi da mantenere.
“Prego umilmente l’Eccellenza Vostra di voler dare un aiuto a mio figlio. O una borsa di studio in modo che possa continuare gli studi. Od un posto dove occuparsi in modo da poter bastare a se stesso”.
Però, se si scrive al Duce, si deve necessariamente provare di credere nell’Italia di Mussolini, ed ecco allora che nella busta per il Capo del Governo finisce anche una foto, che è uno spaccato di storia patria. Ci sono tutti: il capofamiglia Enrico e i sette maschi: Carmine (17 anni), Gaetano (15), Gabriele (13), Oscar (8), Antonio (6), Pietro (2 anni). Tutti in divisa, come pretendeva il Regime, nessuno sorride, come pretendeva l’educazione. Però, con la memoria del passato recente, è fin troppo facile leggere negli sguardi di quei bambini i tratti degli uomini che saranno
E al centro lei, “Vnatt”, baricentro visivo ed emozionale, cardine portante di tutta la famiglia. E’ una donna di 41 anni, una “massaia rurale” rocciosa come le donne di quell’Abruzzo, che non si preoccupa di scrivere all’uomo più importante d’Italia, pur di aiutare la sua famiglia. La lettera arrivò al Prefetto, che la girò al provveditorato, che rispose al Prefetto… un timbro sbiadito ci racconta che arrivò, il 23 gennaio del 1939, sulla scrivania della segreteria particolare di Mussolini.
Chissà se il Duce l’abbia letta mai.
La vita, però, aveva in serbo altri progetti per i sette fratelli, cinque servirono in armi, uno rimase in divisa, uno non tornò. Uno divenne commerciante, un altro impiegato, due ebbero la possibilità di studiare, uno divenne assessore e padre di assessore, un altro onorevole e padre di onorevole.
Ma siamo già in un altro secolo.
E in un’altra storia.
ADAMO