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FIERAFATHo atteso. E ho letto.
Ho atteso che si levasse una voce, anche una soltanto sul “valore” della Fiera.
E ho letto le voci sconclusionate e commenti (anche di fake prezzolati) di chi ha cercato, con la gretta violenza che un tempo, quella sì, si sarebbe detta agricola, di mortificare chiunque avesse un’idea contraria.
Come la nostra.
Che abbiamo scritto, e continueremo a scrivere, che la Fiera dell’Agricoltura non è evento del quale questa città dovrebbe vantarsi.
E adesso, due precisazioni, prima di andare avanti.
La prima: non sto facendo campagna elettorale. Per nessuno. Lo so che vi hanno abituati a pensare che chiunque abbia un’opinione la divulghi per interessi altrui, ma non è il mio caso. Se avete bisogno di giornalisti abili negli esercizi di agilità dorsale o nell’uso disinvolto della lingua sui deretani dei potenti, state leggendo l’articolo sbagliato. Io scrivo, da sempre, quello che sento e che voglio scrivere.
La seconda: la conta delle presenze non è un sinonimo di qualità di un evento, se così fosse il sito migliore sarebbe youporn, che avrà pure i suoi pregi, ma certo non fa informazione di qualità.
Torniamo alla Fiera.
E ci torniamo con una domanda: a che serve?
O meglio: che lascia?
A parte la passeggiata allegra delle famiglie, tra prodotti tipici e trattori, piante e porchetta, quella Fiera che lascia a Teramo?
E soprattutto, quanto ci somiglia?
Siamo ancora il piccolo borgo, al centro di feudi abitati da cafoni (e penso a Silone), o di campagne arricchite dalla presenza di un’etnìa bifolca, che deve presentarsi al mondo esponendosi in una Fiera agricola?
Meritiamo davvero questa rincorsa verso il basso, che ci deve far considerare “riuscita” una manifestazione, se una folla incontrollata parcheggia sui prati o dove capita, solo per poter arrivare a comprare una pianta?
Io dico di no.
Io dico che continuiamo, con un’ostinazione che ci mortifica, a cercare di non dare alla nostra città una vocazione, un “senso”, una “cifra stilistica”, un brand.
Un futuro.
Eppure, sarebbe facilissimo.
Domani, primo maggio, Teramo celebra un’eccellenza assoluta, della quale i teramani non intuiscono pienamente il valore e la portata.
Le Virtù.
Piatto che trasforma in emozione la storia stessa di un popolo, della sua vita scandita dai tempi della natura, delle sue difficoltà e dei suoi successi, dei suoi trionfi e dei suoi silenzi.
C’è più “agricoltura” in un piatto di Virtù, di quanta ce ne sia stata e ce ne sarà in tutte le Fiere passate, presenti e future.
Eppure, le Virtù non meritano un evento.
Sono un rito casalingo, intimo, che celebriamo quasi col fastidio che altri vengano a celebrarlo insieme a noi.
E ogni volta che qualcuno, e penso all’amico Schillaci, ha cercato di costruire un “evento” intorno alle Virtù, ha trovato ostacoli, difficoltà, nessun aiuto dalle istituzioni.
Eppure, è sul sapore che Teramo dovrebbe scrivere il suo futuro.
Sull’incredibile unicità gastronomica, potremmo scolpire il nostro brand turistico, culturale, sociale etc etc.
Lord Richard Keppel Craven, viaggiatore e scrittore, arrivato a Teramo in una notte del 1831, scriveva: «…entrammo su una breccia nelle mura in rovina e sgretolate, indegne di una capitale di provincia di 6.000 abitanti. L’interno della città si presentò pieno di vicoli stretti e di case miserabili. Fu difficile trovare una sistemazione in una delle due locande della città, ma in compenso la sistemazione fu discreta e il cibo ottimo».
Il “cibo ottimo”. Già allora, pur in una città che gli sembrò “indegna”, riconobbe la grandezza di quel “cibo”. Il giorno dopo, per fortuna, avrebbe scoperto anche il Corso, le chiese e il valore di personaggi forse irripetbili, ma di quella notte, pur nello sconforto, porterà via il ricordo del sapore.
Un sapore che potrebbe essere la nostra ricchezza, se solo decidessimo di diventare ricchi.
E intendo ricchi di turismo, attrattori di interessi, diffusori di cultura nostra, antica e vera.
Ricchi anche di un’agricoltura gestita da produttori di qualità, che creano letteralmente eccellenze di portata internazionale, ma che meriterebbero un supporto diverso, la “sponda” possibile di una città che crea un circuito virtuoso.
Certo, ci vuole impegno.
E scelte.
Della politica, in primis.
Se oggi, vi venisse in mente di andare a Modena, non trovereste un ristorante, neanche il più scrauso, che non vi offrisse i tortellini.
Siete sicuri che tutti i ristoranti di Teramo, offrano al turista, la chitarra, il timballo, le mazzarelle, o magari quelle scrippelle ‘mbusse che Pasolini definì “…pacchetti di pasta con dentro del formaggio, pasta dolcemente ottusa e formaggio dolcemente acuto, dentro un brodo dorato”? 
E cito giusto quattro piatti.
Voi sapete, quanti potremmo citarne e offrirne.
Tanti da farne… una Fiera al mese.
Se non fossimo una città… senza Virtù.

ADAMO