Non posso scrivere di “Giando”. Non ci riesco. Eravamo amici, da tantissimi anni. Quando rimasi da solo a vivere a Teramo, poco più che ventenne, avevo preso casa… o meglio: stanza con bagno in via Capuani, sopra quella che era la “Pasticceria Totò”, ma per me - apprendista cronista al Messaggero - era la casa più bella del Mondo, a dieci passi dalla redazione del quotidiano romano, in via Costantini. La sera si tirava tardi, non si finiva mai prima delle 22.30 e la mia routine era sempre la stessa: ultimo giro di nera, poi il Caffè San Giorgio, all’epoca meravigliosamente gestito dai fratelli Nocco, che a quell’ora aveva già abbassato mezza serranda, e si apprestava alle ultime incombenze prima di chiudere. Di solito, quello era il turno di Salvatore, il più grande dei fratelli, che mentre riordinava il bar, trovava il tempo di preparare un bicchiere di latte. Lo so, è infantlle, ma un bicchiere di latte prima di andare a letto, è da sempre per me una garanzia di piacere, così come lo è il cappuccino del mattino.
In realtà, quelli della sera, erano due bicchieri di latte. Il primo era per me, il secondo per l’altro immancabile compagno di chiacchiere serali. Giandonato Morra.
Parlavamo di tutto.
Di noi, dei nostri sogni, dei miei articoli e dei suoi studi, della sua Puglia e della mia Toscana, del nostro essere diventati “teramani per caso”, ma anche del nostro esserlo rimasti per scelta. E di come, proprio grazie a questa nostra immigrazione, potessimo vedere di Teramo quello che, inevitabilmente, tanti teramani non riuscivano a vedere. L’occhio “nuovo” scorge dettagli che l’occhio “antico” non coglie.
Io e Giando, un bicchiere di latte, la notte e questa città non nostra, ma così tanto nostra.
Quella stessa città, nella quale, col passare del tempo, abbiamo creato famiglie, costruito professioni, fatto migliaia di esperienze, positive e negative, certo, ma tutte meritevoli di essere vissute. Non ci siamo mai perduti: ci sentivamo spessissimo, continuando a raccontarci Teramo come facevamo quarant’anni fa, dietro le serrande abbassate del Caffè San Giorgio.
Resteranno mie, per sempre, tutte quelle chiacchierate, così come lo resteranno le infinite chiavi di lettura che mi offriva, per capire certi meccanismi della politica, mentre io ricambiavo offrendogli le mie, a lui utili per interpretare certe dinamiche cittadine.
Sempre, però, anche nelle nostre analisi più severe, e a volte spietate, è venuto meno l’amore che nutrivamo e sempre nutriremo per questa città. Un amore arricchito da una congenita vivacità intellettuale che, e me lo raccontava con convinta soddisfazione, Giando aveva trovato anche in un’altra persona, con la quale faceva lunghe e profonde chiacchierate politiche.
Un suo collega, avvocato, ma soprattutto un suo vicino di casa, che incontrava spesso parcheggiando in garage, col quale si fermava con piacere a chiacchierare. Me ne parlò prima ancora che io avessi modo di conoscerlo, e di condividere con Giando quelle sue stesse valutazioni sulla profondità umana, culturale e politica di quel “ragazzo” (così lo chiamavamo, visto che eravamo di un ventennio più vecchi di lui).
Si chiamava Massimo Speca.
Niente avrebbe dovuto unirli: lontani all'anagrafe, antitetici per credo politico, lettori voraci ma con inclinazioni letterarie diverse, separati finanche nei gusti gastronomici (Massimo non mangiava pesce, Giando... era pugliese), eppure... costruivano sintonie incredibili, delle quali quasi sempre mi rendevano partecipe.
Fu Giando il primo a dirmi che Massimo sarebbe stato un ottimo Sindaco di Teramo, prima ancora che Massimo mi parlasse del suo progetto.
L’unica cosa che, in questo momento, mi conforta in una Teramo senza di loro, è la certezza che ci sia un luogo nel quale si sono ritrovati e chiacchierano di Teramo.
Magari, sorridendo di noi.
ADAMO