Mai avrei immaginato, atterrando a Tokyo, che la fotografia peggiore, per capacità di distillare amarezza e far germogliare tristezza, fosse legata ad un gatto.
Anzi: al verso del gatto.
Ad un “miao miao” durante il quale, per un attimo, Oriente e Occidente, cioè noi e loro, cioè io e il Giappone, sono e siamo stati più lontani che mai.
Sono stato a vedere un “Maid caffè”.
A vedere, senza consumare nulla.
O meglio: un dolcetto l’avrei anche preso, ma dopo l’incontro con la cameriera, quel microbar era decisamente troppo piccolo per ospitarci entrambi.
Mi sono alzato e me ne sono andato.
Forse, 21 anni fa non l’avrei fatto, ma da 21 anni sono padre di Giulia..
Vi racconto tutto
Siamo ad Akihabara, il distretto di Tokyo dedicato all’ Electric Town, che l’organizzatrice di questo viaggio, la mitica Giovanna Fumo di ATS, definisce “…concentrazione di negozi di apparecchi elettronici, “anime” e videogiochi. Probabilmente è la più vasta area di vendita del mondo per beni elettronici e computer, inclusi oggetti nuovi e usati. Oltre che per gli appassionati di elettronica è anche una mecca per gli appassionati di anime: qui si trovano numerosi negozi dove si possono acquistare anime, costumi per il cosplay e locali tematici come i Maid café”.
Eccoli, loro: i Maid cafè.
Ce n’è uno che sembra infilato in una ruga di un palazzo, so che c’è perché il cartello sulla strada è chiarissimo, ma per scoprire che ci si arriva solo attraverso l’ascensore ci metto un po’.
Una scala ci sarebbe anche, ma credo nasca per l’anticendio, ed è più stretta delle mie spalle.
L’ascensore si apre direttamente sull bar, tanto che mi viene il sospetto che l’abbiano fatto sul pianerottolo: spazio minuscolo, pochissimi tavoli, tutti rossi, che con gli eccessi di rosa e giallo alle pareti, “impreziosite” da disegni rosa e gialli e da cartelli gialli e rosa, creano un’atmosfera da cartone animato.
La cameriera, vestita esattamente come sai che la troverai vestita, ti spiega subito che la puoi fotografare solo dal collo in giù.
Di faccia, no.
Di faccia, mai.
Quella in testata, è un foto trovata sul web, non ne ho scattate io.
Non avevo alcun interesse per il “dal collo in giù” di una minorenne giapponese.
Solo il vestitino che tanto eccita il maschio giapponese, al pari di quello delle studentesse, costruendo un’immagine erotica del giapponese medio, che ai miei occhi di occidentale e padre, è a metà strada tra la pedofilia e la perversione.
Ma di questo scriverò nella puntata sul sesso, adesso restiamo al bar.
Anzi, al Maid bar.
Dove capisco perché la cameriera ci nega lo scatto al volto…. è sicuramente minorenne.
Una bambina, trasformata in lolita erotico - fumettistica, che si aggira squittendo tra i tavoli, portando bevande e dolcetti ad una clientela che, se va bene, è di turisti e curiosi, ma se va male è di anziani giapponesi arrapati, che magari sognano di portarsi via le mutandine delle bambine che servono tra i tavoli.
Non lo dico per fare una battuta, il “trofeo” dell’intimo indossato da una cameriera dei Maid cafè, o da una stufendessa, è uno dei fondamenti dell’immaginario erotico del maschio tokyese, tanto che esiste davvero un commercio, lecito e autorizzato e, immagino redditizio, di quelle mutandine indossate.
Ma non giudicateli, questo è il Paese che solo a giugno dell’anno scorso ha approvata una legge che innalza da 13 a 16 anni l’età del consenso, ovvero la soglia al di sotto della quale si considera che la minore o il minore non possano aver acconsentito all’atto sessuale.
Torniamo al bar, giusto il tempo di sentire la mia cameriera - lolita - seminuda e foto dal collo in giù dire: “Per chiamarmi, basta dire “miao miao”… e accompagna il gesto con le due mani alzate e chiuse a pugno, che si piegano in avanti a mimare la tenerezza felina del gattuccio che cerca coccole,
Miao miao?
Ma come … miao miao?
Sono entrato per curiosità, è vero, e curiosità pretende occhi aperti e assenza di giudizio.
Sono qui per capire, non per applicare i miei parametri alle loro vite.
E infatti, non lo faccio.
Anzi sì: mi alzo e me ne vado.
Perché “miao miao” è oltre, molto oltre il mio confine dell’accettabilità.
Che, vi assicuro, è molto ma molto largo.
Ma “miao miao” no, è troppo.
Mi alzo e me ne vado.
Forse, 21 anni fa non l’avrei fatto, ma da 21 anni sono padre di Giulia…
Quel “miao miao” ridefinisce il solco culturale, che divide il mio Occidente e questo Oriente Estremo.
E disintegra un mezzo millennio di rivendicazioni femminili.
Quel “Miao miao” non può essere accettato.
Me ne vado, non solo dal bar, ma anche da Akihabara, anche perché di elettronica non mi serve nulla e poi, ero già stato al Sony store di Ginza, il quartiere dello shopping “ricco”, dove avevo conosciuto Aibo, il cane robot, ultima versione di un progetto che, ormai, è arrivato a sfiorare la perfezione.
Aibo è vivo.
No, non “sembra vivo”, ma è letteralmente vivo, non solo perché si muove anche se nessuno lo chiama o lo tocca, ma perché quando interagisci , ti guarda con i suoi occhi di telecamera, ma batte me palpebre elettroniche, leggendo nelle tue espressioni i codici invisibili delle tue sensazioni, regolandosi di conseguenza, grazie all’ algoritmo servile che lo rende perfettamente in grado di essere il cane che vuoi, nel momento che vuoi.
È davvero impressionante.
Eppure, c’è più dignità “umana” nell’ abbaiare sintetico di Aibo, che nel “miao miao” della cameriera lolita.
Se non fosse per il prezzo, quasi 30mila yen, cioè quasi 5mila euro, Aibo sarebbe un bellissimo regalo.
È perfetto.
Non sporca, non mangia, non pretende passeggiatine serali o mattutine, non si ammala, non morde.
E poi, sicuramente… è chippato.
ADAMO SAN