All’inizio, pensavo che la mia fosse solo sfortuna: non riuscire a trovare, in tre giorni, un cameriere, un tassista, un commerciante, un bigliettaio della metro o degli autobus, che parlasse inglese.
Niente, neanche uno.
Solo i concierge degli hotel, ma solo loro.
Poi, col passare dei giorni, ho cercato di verificare, di capire, continuando a fare tentativi di ogni sorta, ma sempre con lo stesso risultato.
I giapponesi, non parlano inglese.
Anzi: non lo vogliono parlare.
E che sia la lingua internazionale, sembra non fregargliene nulla.
Non lo parlano.
Non lo vogliono parlare.
E basta.
Il cartello che leggete in testata, che ho fotografato poche ore fa a Kanazawa, mi sembra testimonianza più che eloquente.
Era sulla porta di un negozio, in una zona ad altissima presenza turistica, tra il quartiere dei Samurai e la via dello shopping. Tra le vetrine di Dior, Vuitton e griffe simili, e il giardino segreto della straordinaria casa - museo del samurai Nomura, del quale sarei perfido se non vi offrissi una foto.
Ecco, quel cartello è lì. Sulle vetrine di un negozio in zona turistica, in una città di 470 mila residenti, che richiama impressionanti flussi turistici.
Ma nessuno parla inglese.
Al McDonald's della stazione, c'è addirittura un "samurai Burger", ma non lo puoi ordinare in inglese.
Non lo parlano neanche nel tempio dello yankee food.
Eppure, nessuno parla inglese.
Anzi: nessuno vuole parlare inglese.
Perché?
Qualcuno sostiene, con una certa faciloneria, che si tratta solo di un senso di vergogna: i giapponesi sanno di non essere in grado di pronunciare in maniera perfetta le parole inglesi, e allora non le pronunciano.
Benché un’ipotesi come questa sia compatibile con la smania di perfezione dei giapponesi, che certo eviterebbero ogni possibile oltraggio ad una lingua straniera, non è un’ipotesi accettabile.
È vero, praticamente non esiste la “r” e le cadenze sintattiche di una lingua così rigida, non facilita il rapporto con le lingue romanze… al mio arrivo in hotel, io divento Anto - Nìo - Damoa, ma enfatizzato con una cadenza che, da noi, s’userebbe solo per gridare “stop al televoto”.
Non va meglio alle lingue germaniche, come l’inglese e il tedesco, perché l’asciuttezza nipponica si perde nella costruzione chilometrica delle parole tedesche, mentre per l’inglese… il problema è diverso: non lo vogliono parlare.
E non lo studiano.
Nelle scuole, infatti, studiano giapponese e giapponese antico.
Niente “lingua straniera”.
Niente inglese
Non si parla… e non se ne parla.
E se capita che, in qualche scuola, magari ad indirizzo turistico, si decida di insegnare inglese, allora sarà tutto impostato sulla grammatica e sulla scrittura, senza alcuna “conversazione” applicazione pratica.
Così, quei pochi che si avventurano, sono costretti a costruire una loro struttura verbale… facendo nascere lo Janglish, una lingua di tentativi e assonanze, di storpiature e castrazioni, che finisce per essere una perfetta creatrice di incomprensibilità.
Nel ristorante di Takayama che, ieri sera, ha accolto la nostra cena, a base di carne eccellente cotta su un braciere a centrotavola, ci sono voluti sette minuti buoni, per capire cosa fosse quel “uodaa” che la cameriera voleva portarci.
Era acqua.
“Uodaa” è l’inglese “Water” in Janglis .
A proposito di cena, sarei ancora più perfido se vi negassi il delizioso piatto di carne, che abbiamo cotta nel braciere a centro tavola col metodo Yakiniku, e che accompagnato da una ciotola di riso, una di brodo di miso, insalata e dolcetto (non dolce) ho pagato, al cambio yen, 28 euro.
Torniamo alla cameriera: a parte “uodaa” e “finish” per indicare che aveva servito tutte le portate ordinate con grande difficoltà, nessuna altra parola di Janglis.
E neanche la proprietaria, alla cassa, che non offre neanche lo scontato “tenkiiiuuuu” di ringraziamento, o un "guudmoninn", ma sentenzia un “arigatò gozaimasu”, che sarebbe una sorta di formale grazie mille.
Tutto qui.
Niente inglese in Giappone.
Un’ostinata ricerca della distanza, che non è secondo me alterigia culturale o spocchia orientale.
È dolore.
L’America, da qui, è la terra oltre il grande mare. La nostra percezione euoropocentrica, spesso ci spinge a dimenticare quanto i due estremi del nostro mondo siano dirimpettai.
Per noi, l’America è di qua e il Giappone di là, ma nelle loro geografie siamo noi l’altrove.
E questo è il mare dal quale è arrivato il doloreb di una ferita insanabile, così profonda da cancellare la divinità imperiale.
E questo è il mare dal quale vennero le ali d’acciaio che lasciarono piovere sul Giappone la “bomba”.
Della quale qui non parla nessuno.
Mai.
E se chiedi, cambiamo espressione.
L’inglese è la lingua degli americani.
Quella che qualcuno usa inun cartello sulla vetrina di un negozio, solo per avvertirci che non lo parlerà mai.
ADAMO SAN