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LunarVa bene: il MoMa è un “altrove”, uno spazio fuori dal tempo, nel quale l’arte ti incorre fino ad ingoiarti. Ma è il MoMa… e in fondo lo sai già prima di andarci, che respirerai l’alfabeto visibile dell’arte moderna.

Lo  Smithsonian National Air and Space Museum invece, è davvero una scoperta. 

È uno di quei posti che, da sempre, sognavo di vedere, perché mi affascina il mistero del volo, la lotta  eterne dell’uomo contro la gravità che ci nega le ali, per questo un luogo che celebra quella lotta,  non può che essere uno scrigno di emozioni.

Sapevo che avrei visto i disegni e le macchine originali dei fratelli Wright, lo Spirit of Saint Louis che portó Lindbergh da New York a Parigi e… nella storia.

E tanti altri frammenti dell’epopea “alata”. 

Però, trovarmi all’ingresso di uno dei più importanti musei del mondo, di fronte ad un modello dell’Enterprise di Star Trek lungo tre metri, davvero mi ha stupito.

No, di più: per quanto il sia un appassionato “trekker” e abbia seguito i viaggi  “…della nave stellare Enterprise” e sappia benissimo che “…. la sua missione è quella di esplorare strani nuovi mondi, alla ricerca di nuove forme di vita e di nuove civiltà, per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima”, in un museo scientifico non me l’aspettavo.

M’è sembrata un’americanata, ad uso e consumo dei visitatori dal palato imbarbarito dalla tv.

Sono salito al piano superiore, con la bocca amara della delusione e un pizzico di malcelato fastidio, perché per me un museo è un posto serio, specie se è scientifico.

Un po’, al piano superiore, quella sensazione si è spenta, quando sono arrivato nella sala dedicata a Marte, con le copie gemelle dei grandi rover inviati sul Pianeta Rosso.

Ma è stato solo un attimo, perché in mezzo al corridoio pende, a grandezza naturale, il caccia stellare di Luke Skywalker. 

Altra americanata, mi dico, e di nuovo mastico amaro. 

Tanto che quasi medito di andarmene, anche perché s’è fatta l’ora di pranzo, e c’è da andare a cercarsi un hamburger… ma poi mi concedo un’ultima sala.

E quella sala, vale tutta l’attesa coltivata nei miei sogni bambini.

In un angolo, c’è la tuta che Alan Shepard indossava quando divenne il primo americano a volare nello spazio, nella teca accanto parte della sua strumentazione, poi documenti, foto, immagini che scorrono e, mentre tutte le voci dei visitatoti si spengono, come se si entrasse in una cattedrale, si sentono quelle di una registrazione antica.  

Sono le voci di “quella” notte.

Quando tutti  insieme, trattenemmo il fiato, in attesa che arrivasse la notizia.

Perché io, me la ricordo quella notte d’estate.

Avevo cinque anni, ma mi ricordo chiaramente la voce di mio padre che, emozionato, mi diceva: “Siamo sulla Luna”.

Quella registrazione si fa emozione, perché quelle che senti sono le voci vere di Houston e di Neil Armstrong. Sono gli ultimi metri prima dell’allunaggio, mentre le immagini di quella notte scorrono su una parete, in un angolo rifatto del Lem, perché tu possa vedere la luna come la videro loro, avvicinarsi un centimetro alla volta. 

Ma la vera emozione è alle tue spalle.

E ti aspetta in agguato.

Solenne come la Storia.

C’è lei, la “navicella del rientro”, quella che riportó a casa Armstrong, Aldrin e Collins.

Quella che, accompagnata dai grandi paracadute, appoggió sul mare gli uomini che avevano passeggiato in un altro mare, quello della Tranquillità.

Lei, il modulo di comando dell’Apollo 11.

Te la ritrovi davanti e non sai dove guardare, se meravigliarti della ruvida artigianalità di certi componenti, tubi e fili che la nostra moderna visione digitale rende impensabili, o se restare affascinato dalle ampie parti di rivestimento bruciate al rientro.

E continui a chiederti come abbiano fatto tre uomini, più di mezzo secolo fa, a raggiungere il suolo lunare e tornare a casa, in questa scatola di metallo imbullonato. 

Ma l’hanno fatto.

E la “scatola”, quella “scatola” è lì, davanti a te. L’hai vista mille e mille volte cadere in mare… e adesso è lì.

L’ho disegnata, l’ho costruita coi Lego, l’ho immaginata chiuso in uno scatolone con mio fratello, l’ho addirittura studiata sui documenti della Nasa.

E adesso è lì… a venti centimetri da me.

Trattengo il respiro, ma quando faccio per andarmene, perché tutti vogliono il loro attimo di preghiera laica davanti alla navicella, arriva l’ultimo è più violento pugno allo stomaco: la tuta di Armstrong. 

Quella che indossó sulla luna, quella del “grande passo per l’umanità”.

La guardo e, in un attimo, è il Carnevale del 1970 e mio padre mi accompagna a scuola mascherato da astronauta. 

La mia “tuta spaziale” argentata è ancora nella cassapanca dei ricordi più cari. 

C’è lo stesso stemma dell’Apollo 11 che c’è in quella di Armstrong.

Ma la mia è più bella…