Ero indeciso, se andare o meno.
L’invito era interessante: "Un mondo ri-parte", serata organizzata dal Comune di Teramo, con la proiezione del film ,"Un mondo a parte" preceduta dall'incontro con il regista Riccardo Milani e alcuni sindaci del cratere sismico.
Ero indeciso perché temevo che, col pretesto del film, mi toccasse una serata di chiacchiere e una mezza passerella di politici in ordine sparso.
Poi, mi sono deciso.
E ho fatto bene.
La serata, condotta con garbo da Nicola Di Paolantonio, è stata invece piacevolissima. Anche negli interventi istituzionali, e sposo in toto non solo l’invito del Sindaco D’Alberto ad una collaborazione tra i territori, che sia nei fatti e non nelle teorie, nelle azioni e non nelle parole, perché è vero “che perdiamo un pezzo volta" ma è vero anche che siamo capaci di ricostruirli quei pezzi. D'Alberto, che quando non gianguideggia sugli annunci ha una non comune capacità di "sentire" il ruolo pubblico, distilla dal film il concetto di "restanza", cioè il fatto che «…al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di sé stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente…», solo che non lo si può fare da soli, «...ma serve visione - sottolinea il Sindaco - e soprattutto collaborazione», intesa come condivisione di uno scopo unico e comune.
Concetto, ahimé, complicatissimo, nella regione delle divisioni eterne, degli asti mai risolti, nei quali davvero capita che un Sindaco "coccia di cazzo" remi contro la scuola di un Comune vicino.
Giustissimo quindi, anche il “mea culpa” politico collettivo del presidente della Provincia, Camillo D’Angelo, perché la colpa dell’Abruzzo di oggi, come dirà Agnese nel film, “è solo nostra”.
Non di altri.
Delle parole di Milani non vi racconto, perché c'è un'intervista a fine articolo.
E adesso basta, voglio parlare del film.
Buio in sala.
lo dico subito: "Un mondo a parte" è un gran film.
Tra i migliori che ho visto nell'ultimo biennio.
Molto, ma molto meglio di quanto mi aspettassi.
Non ero ancora andato a vederlo, perché la mia anima cinefila soffre, da sempre, di una patologia arcana: l’interesse per un film è inversamente proporzionale alla pubblica celebrazione che quel film riceve.
Più piace, meno mi attira.
Più lo esaltano, meno mi motiva.
Figuratevi quanto mi attraesse un film che, con quell’inerzia un po’ stantìa che coinvolge tutto un certo mondo dell'italica “cultura” (si noti la minuscola), da settimane viene osannato ovunque, specie in Abruzzo, con la processione di politici festanti e selfie di rito.
E poi, una mezza idea del film me l’ero già fatta: seguo Milani da sempre, mi piace il suo tocco leggero, so quanto sia nelle sue corde il racconto di un’Italia minore e periferica (che sia un paesino o una borgata romana, in fondo, fa poca differenza). Certo, nel suo cinema non c’è il graffio amaro di Pasolini, né la memoria rivissuta della provincia felliniana, ma come Arlecchino che si confessò burlando, qualche verità la si può anche raccontare tra una risata e l’altra, magari triangolando sulla spiaggia di “Coccia di morto” il disagio dell’integrazione disintegrata delle borgate romane, o magari affidando ad un finto invalido, donnaiolo e sessista, la distruzione politically incorrect di ogni luogo comune sulla disabilità.
Sapevo, poi, che Milani conosce l’Abruzzo, per averlo frequentato e amato fin da ragazzino, tanto da averne fatto spesso il muto (neanche poi tanto), ma fondamentale coprotagonista delle sue storie.
Penso all’Anversa degli Abruzzi, paesino d’origine dell’architetta Cortellesi in “Scusate se esisto”, alla Vasto del “Posto dell’anima”, fino ad arrivare a quella “Guerra degli Antó” nella quale l’Abruzzo era il senso stesso del film.
Ricordavo, poi, come di un insegnante e dell’esperienza di scuola un paesino abruzzese avesse già raccontato, proprio nel suo film d’esordio, “Auguri professore”.
Insomma, non mi attirava questo film.
Non al punto da andare al cinema.
Sbagliavo.
Tantissimo.
Perché “Un mondo a parte” è anche… un film a parte.
È un manifesto, anche politico, di denuncia di tutto quello che abbiamo sbagliato nel “pensare e pensarci” abruzzesi.
È il ritratto, fedele come una cronaca giornalistica e crudo quanto un editoriale di gran penna, del vissuto e del tessuto di una terra sulla quale, da sempre, l’unica cosa che riusciamo a far germogliare è il piagnisteo palloso del destino ineluttabile, invocando chissà quale intervento divino (o Statale, meglio se Europeo) in “difesa delle aree interne”.
Che poi, è anche un errore chiamarle “interne”, visto che ce le rende fintamente familiari e inutilmente intime; al contrario: sono esterne, in tutto. Esterne perché lontane dalle città, esterne perché lontane dallo sviluppo, esterne perché marginalizzate al ruolo di destinazione utile per il fine settimana, magari ispirato, come giustamente critica uno dei personaggi del film, dall’ambientalismo salottiero e modaiolo.
Già, i personaggi.
Sono quasi tutti locali, gente normale prestata al racconto di questa storia, che è “nostra” quanto più nostra non avrebbe potuto essere, e che quindi nessuno avrebbe potuto interpretare meglio.
Tra loro, Antonio Albanese si muove con la consueta perfezione, ma la vera sorpresa è Virginia Raffaele, che giganteggia superlativa nella sua vicepreside, senza sbavature, senza inutili crudezze o non richieste gentilezze, è vera, saporita e totale come un piatto di “orap' e faciule”.
Chi non l’ha mai provato, non può capire.
Milani racconta l’altra faccia della luna dell’Abruzzo delle cartoline.
Racconta il non visibile (non l’ invisibile) dell’Abruzzo delle terre del Grande Parco, quello che ha fatto un secolo.
Quello del cuore verde d'Italia, con la montagna che guarda il mare e il lago a forma di cuore.
Quello dei lupi - guarda quanto so' carini! - che s’affaccjano in paese per farsi fotografare, come se lavorassero per la Pro-loco.
Quello dell’orsacchiottone peloso che - guarda quant'è bello! - passeggia per le vie del borgo.
Quello del “nun ce potete crede, ce stava un cervo che camminava proprio a fianco daa machina mia”.
Milani strappa il manifesto comodo dell’Abbbruzzo facile, e ci offre il ritratto schietto di quello che siamo, tra natura difficile e politica sciatta, tra spopolamento e rassegnazione, tra anime guerriere e cocce di cazzo.
La terra dove non servono i mocassini, dove fiocca che "mannaggia la majella..." e dove " se vuoi che una cosa succeda, non la devi dire".
E non solo, perché mentre racconta la vicenda di una scuola di montagna condannata a morte, dedicata non a caso ad un pastore che divenne poeta autodidatta tra i boschi dei briganti dell'Italia appena unita, Milani, in punta di sorriso, disintegra l’idea stessa dell’Abruzzo da film.
Non è venuto qui a cercare il West o la Terra promessa a Campo Imperatore, per un Trinità o un King David, né a prendersi un castello per farne “indimenticabile location” di qualche “grande produzione americana”, magari consentendo agli americani di sfondarlo, quel castello, per aprire una portone che non esisteva, come abbiamo lasciato che succedesse a Rocca Calascio per Ladyhawke.
No, Milani pennella un capolavoro di verità regalandoci, e speriamo di essere capaci di capirlo, il più efficace manifesto politico per la rinascita dell’Abruzzo montano.
Non chiacchiere, ma lo sguardo lucido su una terra nella quale, per forza e per amore, qualcuno vuole restare.
O addirittura tornare.
Una terra nella quale i lupi “non so’ cattivi” ma non li devi disturbare, gli orsi devono starsene tra i boschi e non tra i borghi, se incontri un cervo in paese basta un incrocio di sguardi… e i bambini sanno riconoscere lo strido dell’aquila.
“Un mondo a parte” è il manifesto della “restanza”.
Proviamo a ripartire da qui.
Nell’attesa, se guardando questo film, qualche pennellata poetica (e Milani è particolarmente ispirato), vi offre un’emozione ai limiti della commozione, non preoccupatevi.
La montagna lo fa.
ADAMO