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Nei miei quarant’anni di giornalismo, ho subito una trentina di processi per diffamazione a mezzo stampa.

Tutti vinti (grazie anche all'avvocato Manola di Pasquale), tranne uno, che è ancora in corso e del quale vi racconterò presto...
 
Recentemente, mi sono trovato nella necessità di passare dall’altra parte dell’aula, denunciando qualcuno per diffamazione.

Questa, è la storia che vi voglio raccontare.

Perché questa volta, ho perso… ed è stata la mia più grande vittoria.
Se avessi vinto, infatti, avrei potuto ottenere la “soddisfazione” di una condanna, forse un risarcimento economico… perdendo, invece, ho ottenuto una soddisfazione ben maggiore: la certificazione legale dell’umana miseria dei miei haters, la sentenza ufficiale della loro pochezza umana e culturale.
La "misura" dell'infinita distanza che esiste tra me e loro, calibrata ... in nome della legge.

Vi racconto tutto.

Durante la campagna elettorale, ogni volta che ho espresso un mio giudizio sul primo quinquennio della gianguideria, sono stato brutalmente attaccato sui social dal uno sparuto gruppo di personaggi, più o meno conosciuti e politicamente schieratissimi, che - senza mai entrare nel merito dei miei articoli - hanno sparso palate d'odio e ogni genere di velenoso insulto.

Ne ho querelati sette.

Il Pubblico Ministero, Davide Rosati, nel valutare la mia denuncia, ha deciso che due dei miei haters (un pensionato e una guida alpina) dovessero andare a processo, mentre per altri cinque (un Sindaco, due ex consiglieri comunali, un ex consigliere provinciale e un impiegato) ha chiesto l’archiviazione, non individuando «…elementi tali da poter sostenere che essi costituiscano un attacco personale lesivo della dignità morale ed intellettuale dell'avversario, ovvero del giornalista Antonio D’Amore…».

Dell’avversario?

Quale “avversario”?

Un giornalista non è “avversario” di nessuno.
Racconta fatti e - se ne ha capacità - li commenta, distinguendo i fatti dal commento.

Non mi piaceva quell’ “avversario”, così ho presentato opposizione all’archiviazione.

E ho vinto… perdendo.

Il dottor Roberto Veneziano, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Teramo, ha infatti confermato l’archiviazione, ma l’ha fatto con un’interessantissima analisi della condizione attuale della “comunicazione”, in particolare quella social, evidenziandone anche i contorni sgretolati dall’involuzione negativa del lessico, sempre più degradato, in una società nella quale, e cito le sue parole: «…profili di libertà di espressione che, oggi più che mai, tendono ad esorbitare sempre più diffusamente verso formule di aperto dileggio e volgare attacco personale, stante la diffusa percezione di un disvalore attenuato di alcune locuzioni verbali che, inserite nei contesti conflittuali in cui vengono espresse, finiscono con l'assumere connotazioni di offensività ben diverse da quelle che verrebbero riconosciute in accademie filologiche avulse da scenari, come quelli caratteristici della società contemporanea, in cui ogni pensiero, ove non veicolato con le caratteristiche della polemica esasperata, e/o dell'attacco frontale dell'interlocutore, sembra destinato a non essere adeguatamente apprezzato».

Quella che, anche con un piacevolissimo uso della lingua patria, il dottor Veneziano fotografa, è la desolante realtà di un imbarbarimento, culturale e quindi verbale, che subordina i contenuti agli insulti e rende “apprezzabile” (dal popolo webete) solo quello che viene “gridato" insultando.
E’ un passaggio decisivo, nelle motivazioni dell’archiviazione, perché questo imbarbarimento, questo vomitare social, questo fare dell’insulto la regola, di fatto “depotenzia” l’insulto.

Lo rende “normale”.

Genera quella che il dottor Veneziano definisce «…irrilevanza penale di alcuni termini, in grado di esprimere volgarità in modo triviale ed indecoroso, essendo ormai stati recepiti nella evoluzione degenerativa del linguaggio corrente, purtroppo sempre più impoverito nello sforzo di rappresentare pensieri il più delle volte rattrappiti dall'ignoranza e dalla mancanza di rispetto per le opinioni altrui dovendo tale locuzione di spregevole lessico essere inserita in un contesto di conflittuale contrapposizione nell'interpretazione di eventi socio politici che, evidentemente, il giornalista aveva in precedenza inserito in non condivise chiavi di lettura, sì da ergersi come espressiva di modesta educazione eloquiale ed assoluta mancanza di finezza letteraria».
Quello che avete letto, è il commento del Gip a chi mi accusava di scrivere “stronzate”, mentre per quelli che mi accusavano di essere “di parte” scrive «…tale accusa viene mossa, purtroppo, sempre più diffusamente anche nei confronti di Magistrati, pubblici ufficiali che sono tenuti, ex lege, ad un contegno terzo ed imparziale nell'approcciare le tematiche di cui si occupano) il più delle volte traduce la spocchiosa tracotanza di essere gli unici ad aver interpretato, con correttezza e cognizione di causa, la miriade di sfaccettature che, normalmente, un determinato evento esprime, sì che chiunque si cimenti nel riproporre il medesimo fatto, rivestendolo di una diversa chiave di lettura, si pone, ai nostri appannati occhi, al di fuori di quel paradigma di veridicità che solo noi siamo convinti di aver lucidamente percepito, e tale sterile illusione induce sovente l'agente ad esprimere valutazioni accusatorie di "faziosità" laddove, di contro, qualunque utente del web o lettore della stampa è in grado di porsi al cospetto di tale fallace locuzione valutandone la possibile aderenza alla propria idea di quella determinata situazione e formandosi, eventualmente, un personale convincimento fino al punto da schierarsi da una parte o dall'altra nella schematizzazione manichea della contesa a tutti i costi…».

L’archiviazione, dunque, non “assolve” i querelati, ma “condanna” tutti noi a prendere atto dell'ormai acclarato decadimento del dibattito, della mortificazione del confronto, di una prevalenza dell’insulto, che depenalizza l’accusa di “scrivere stronzate” o di “essere di parte” rivolta ad un giornalista. Il Giudice rileva, pur non accettandolo culturalmente, il degrado sociale e social della prevalenza dell’ignoranza ragliata, che si fa prassi, regola... avvilente "normalità".

Ed è in questo passaggio, che considero questa “sconfitta” una vittoria.

Come dicevo, se avessi vinto, avrei potuto ottenere la “soddisfazione” di una condanna, forse un risarcimento economico… perdendo, invece, ottengo un ritratto, terzo e ufficiale, della natura umana dei miei “accusatori”.

Un risultato, che mai avrei ottenuto con una sentenza a mio favore.

Nel definire i post da me denunciati, il dottor Veneziano infatti mi regala definizioni quali:
«…termini, in grado di esprimere volgarità in modo triviale ed indecoroso…»

«… locuzione di spregevole lessico…»

«…termini spicci e puerili…»

«… modesta educazione eloquiale ed assoluta mancanza di finezza letteraria…»
«…infimo livello di elaborazione culturale…»

«…becero ideatore di tale incommentabile obbrobrio…»
«…banale ed incomprensibile espressione…»

«…surreale e sgrammaticata pubblicazione di commenti…»

«…pensieri il più delle volte rattrappiti dall’ignoranza…»
Nella sua disamina, attenta e colta (ne consiglierei la lettura agli studenti di Scienze della Comunicazione), il dottor Veneziano, dedica anche qualche riga al mio “stile”. Nel giudicare la mia lamentela, per alcuni - immancabili - riferimenti alla mia perduta magrezza, il Gip cita il mio libro “Ciccione” e scrive: «…con l'arguzia e lo stile istrionesco che ne caratterizza l'impostazione narrativa, abbia affrontato argomenti, troppo spesso ritenuti tabù nel confronto interpersonale, con leggerezza ed ironia, in tal modo evidenziandone il livello superiore di percezione di problematiche che giammai potrebbero condizionare in negativo l'equilibrio di un uomo di cultura, sebbene la società contemporanea sia sempre più protesa a valorizzare, nella galoppante preminenza dell'apparenza sulla sostanza, modelli di benessere e di successo più adesivi a criteri estetici che etici».

La causa è archiviata.

L’avevo iniziata, nella speranza che un giudice segnasse la distanza, calibrasse la differenza, misurasse la diversità, tra chi fa il mio mestiere e chi compensa le proprie inadeguatezze, lucrando visibilità riflessa.

Tra chi scrive e chi vomita.

Tra chi racconta e chi raglia.

Tra me e loro.

Non avrei potuto sperare in una vittoria più netta di questa "sconfitta".
Mi raccontano che, tra loro, c'è chi sta "festeggiando".
Scrisse Borges: "Tutta la vita di un uomo consiste, in realtà, in un solo attimo: quello in cui intuisce per sempre chi è...".
Grazie al dottor Veneziano, oggi quella "intuizione" è per loro una verità rivelata.
In nome del Popolo italiano. 
ADAMO