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KopoDicono che la “Francia é Parigi”, e per un lungo periodo della mia vita, ho creduto che lo fosse davvero. Perché é nelle logiche del turismo distratto, quella di considerate la “fama”, intesa nel senso dell’attrattività, come un parametro di valore. Ieri, con l’ormai mitica Giovanna Fumo di ATS, costruttrice di emozioni di viaggio, sono arrivato a Reims (loro la chiamano Rams, con la R arrotata e la s impercettibile), e questa é altra Francia. Da qui, Parigi é lontanissima, e non tanto nella quadratura chilometrica, quanto nell’ impostazione culturale. Te ne accorgi subito: i reimsesi (pardonnez moi, ma non credo esista un nome italiano, così lo invento) non hanno la spocchia antipatica dei parigini, quella fastidiosa impostazione cacacazzegna che ti fa sentire, sempre e comunque, sgradito e fuori luogo. Sarà che questa, per quanto nobilitata dalla fortuna di produrre un vino che ha rubato e reso brand il nome della regione, é sempre gente cresciuta sudando in campagna, combattendo coi capricci della natura e sfidando gli umori del meteo. Quando conosci l’odore delle zolle, non riesci a coltivare la spocchia parigina. Rivedo, nelle facce dei reimsesi incontrati al mercato, lo stesso garbo antico della gente della campagna toscana, quell’educazione fatta di gesti più che di parole, di sorrisi più che di  frasi. Sarà che li accomuna la stessa identica passione per il sangue delle vigne, solo che in Toscana si scioglie nel Chianti, o nel Brunello, qui diventa Champagne. Che poi é solo un modo raffinato di ricordarsi da dove si viene, non “da la montagne” ma “da la campagne”, perché le origini non si tradiscono. E qui lo sanno bene, perché la tradizione è uno degli ingredienti di quella strana alchimia che, grazie al tempo e all’arte degli umani, fa di una spremuta d’uva uno dei vini più famosi al mondo. Qui, nella regione della Champagne-Ardenne (oggi riunita con quella dell’Alsazia-Lorena, nel “Grand Est”, con una riforma annunciata come rivoluzionaria, ma che accorpando ha lasciato intatti gli organici pubblici preesistenti… tutto il mondo è paese), il vino non è solo un’arte, ma una religione, che suoi riti e suoi culti, e che non risentono affatto del fatto che i 310 milioni di bottiglie prodotte valgano circa 6,5 miliardi di fatturato, con un costo di produzione che incide per il 10%, perché qui comunque lo farebbero lo stesso così. Anche se vendesse quanto una cantina sociale nostrana. Perché la religione é un fatto intimo, personale, segreto anche, e pretende silenzio, come quello che accompagna le rotazioni di un quarto di giro del capo cantina della Maison Pommery, nelle cave a trenta metri sottoterra, e ogni volta che gira aumenta l’inclinazione a testa in giù, fino a quando il collo non sarà ghiacciato e stappato, prima del decisivo rabbocco di zuccheri che ne segnerà la sorte, se sec, demi - sec. oppure brut che é nato proprio qui, per volere di madame Louise vedova Pommery (le vedove champenoise sono importantissime), e che da sempre identifica il millesimato della Maison, che sembra un castello elisabettiano, visto l’amore che Madame nutriva per le terre d’oltremanica. È nella logica di un certo modo di vivere in provincia, quello di ambire ad una sorta di rango superiore, che vesta di nobiltà una ricchezza campagnola. C’è chi compra titoli e chi ai costruisce un castello. Ci sta. Tanto più se vivi nella cittadella che ospita una delle chiese più importanti della storia, in tema di monarchia, quella che cede solo a Westmister il primato di essere stata sede di incoronazioni. Se, infatti, nell’antica chiesa inglese si incoronano re da Guglielmo il conquistatore in poi, cioè 40 re in più di un millennio, nella splendida Notre Dame di Reims sono stati 25 i sovrani francesi incoronati qui, investiti con la spada di Carlo Magno e unti con l’olio della sacra ampolla. Tra loro, il Re Sole, che su consiglio del suo medico, beveva di continuo una bevanda frizzante medicamentosa, inventata da un monaca benedettino, che si chiamava... dom Pierre Perignon. 
ADAMÒ