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IMG_3237.jpgAvrebbe meritato ben altra platea, l’intervento iniziale di Erri De Luca, unico momento degno di memoria della serata finale della trentesima “scintillante” (come la definisce la paillettata presentatrice) edizione del Premio Gianni Di Venanzo
A dirla tutta, anche il vescovo che, parlando del tempo che passa, dice «...ho settant'anni, mi preparo al Paradiso...», è un frammento che conserveró..
Torniamo alla "serata di gala" del Di Venanzo, condannata, com’era prevedibile, a riviversi in un copione già visto, con una coazione a ripetere che celebra l’inutilità di un evento che evento non è, ma si esalta nell’autocompiacimento di una città, che recita la parte della protagonista culturale, ma che in realtà si guarda allo specchio e non si riconosce più. 

Circa centocinquanta presenti – e, a dirla tutta, è quasi un miracolo – divisi in categorie ben riconoscibili: una quarantina di premiati con contorno, un’altra quarantina di autorità e politici in cerca di visibilità, una trentina di organizzatori (e relativi parenti), più i soliti anziani onnipresenti che non mancano un’occasione per dire “io c’ero” o, magari, per postare qualche foto sui social, tentando l’improbabile difesa di una manifestazione indifendibile, solo per dovere d’appartenenza - vero o presunto - alla gianguideria regnante. 

La città è altrove.
Affolla i bar vicini al gazebone, ma disinteressandosi totalmente dell’evento, o nella sagra sbirrozzante che riempiva l’altra piazza, tra risate, bicchieri pieni e musica. 

Sotto il tendone, si recitava invece la solita commedia del “prestigio culturale”. 
Il copione non cambia mai: vippetti e starlette scaricati da van coi vetri oscurati: arrivo, foto, premio, sorrisi di circostanza e fuga. Tempo medio di permanenza in città: quanto basta per finire nelle stories di qualche assessore entusiasta. E poi via, senza neanche un caffè lasciato in cassa ai bar del centro.

Si continua a chiamarlo “evento culturale”, ma ormai il Di Venanzo è diventato una cerimonia per pochi intimi, un talk show in differita dove si applaude sé stessi. 

Non basta un tendone, qualche metro di red carpet di fortuna e un paio di facce da fiction per fare cultura.
Serve partecipazione, serve curiosità, serve un motivo per cui la città si senta parte di qualcosa.

Continuare così significa confondere la rappresentazione con la sostanza.

Agli inizi, il Di Venanzo era un premio “diverso”, legato a una tradizione, a un’espressione di professionalità, a un’idea di cinema.
Oggi, trent’anni dopo, è un evento di sopravvivenza, mantenuto in vita più per abitudine che per convinzione.

La città lo sa, e infatti non partecipa più.

È ora di accettarlo: un evento che non lascia niente, non crea valore, non emoziona e non dialoga con il suo territorio è solo un costo con la giustificazione culturale.

E la cultura, quella vera, non è un tendone pieno per due ore, ma una traccia che resta.

E il Di Venanzo, non resta.
L'assessore Filipponi, dal palco, cerca l'applauso proponendo di "istituzionalizzarlo", e la cosa mi conforta, perché detta da lui è praticamente una condanna a morte, visti i precedenti con la Coppa Interamnia e il Premio Teramo.
Basta col Di Venanzo, abbiate pietà.
Di voi. 

ADAMO