Parte da lontano l’instancabile processo di criminalizzazione dello scomodo e incontrollabile palazzinaro newyorkese, quando, subito dopo aver battuto contro ogni pronostico la Clinton, è stato oggetto di quella che poi si è rivelata una grossolana simulazione di reato, meglio nota come “russiagate”, amplificata da una martellante campagna di denigrazione e delegittimazione sostenuta dai principali giornali e social network.
Fallito il tentativo d’impeachment, la controinchiesta del procuratore John Durham, sembra esser svanita nel porto delle nebbie della giustizia americana che, a quanto pare, non ha nulla da invidiare a quella nostrana.
Sosteneva con rassegnato realismo Leonardo Sciascia che lo Stato italiano, per sconfiggere la mafia, dovrebbe processare se stesso.
L’FBI per risalire alle origini del Russiagate avrebbe dovuto indagare alcuni suoi funzionari e dirigenti.
Quasi impossibile nel paese più corrotto del mondo, con buona pace ormai del “tycoon”, la cui ira funesta non ha smosso di un millimetro l’astuto ministro della giustizia William Barr, tanto fedele al suo presidente d’esser riuscito a nascondere al popolo americano la notizia delle indagini per riciclaggio a carico di Hunter Biden, uno scandalo che ora potrebbe travolgere il già azzoppato nuovo presidente, anche laddove non dovesse esser formalmente indagato per concorso negli affari del figlio Hunter.
Il vero presidente “eletto” è forse Kamala Harris?
Una notizia che il buon Barr conosceva già nell’aprile del 2020 e la cui divulgazione nel corso della campagna elettorale ben avrebbe potuto condurre al ritiro della candidatura del vecchio zio Joe.
Un argomento tabù per la stampa “mainstream” durante la campagna elettorale, impegnata com’era a divulgare notizie di accuse, al momento neppure futuribili, a carico della figlia di Trump per presunte (ma non contestate) frodi fiscali.
La stampa italiana, in uno sforzo di fantasia senza precedenti, ha battuto quella americana, al punto da riportare la notizia palesemente falsa dell’intenzione di Donald di voler concedere la grazia alla figlia, atto giuridicamente impossibile dal momento che costei non risulta ad oggi neppure indagata.
“Notizie” che sono forse servite per coprire l’unica vera notizia rappresentata dall’indagine a carico del figlio di Biden?
Uno sforzo di fantasia che ha raggiunto il suo apice quando il coriaceo biondo ha osato addirittura contestare l’esistenza di colossali brogli elettorali, raccogliendo peraltro, oltre mille deposizioni (affidavit), filmati e consulenze tecniche, tutte prove che ad oggi, non sono state oggetto di un accertamento giurisdizionale nel merito, poiché i vari ricorsi sono stati respinti sulla base di questioni puramente procedurali, quali il difetto di competenza, legittimazione, l’asserita tardività o, la cui trattazione, come accaduto per l’ultimo ricorso presentato alla Suprema Corte dagli avvocati di Trump Rudy Giuliani e Jenna Ellis, è stata fissata in data successiva alla cerimonia d’insediamento del nuovo presidente!
Tutti, con la sola eccezione del ricorso presentato in sordina da un valido avvocato di provincia dalle probabili origini italiane, tal Matthew DePerno il quale, nell’interesse di alcuni elettori della contea di Antrim in Michigan, è riuscito ad ottenere dal tribunale locale l’esperimento di una consulenza tecnica d’ufficio che ha accertato un margine di “errore” delle macchine (Dominion) utilizzate per il conteggio dei voti postali, superiore al 60%!
Perché mai tale doveroso accertamento giurisdizionale non è stato esteso a tutte le contee degli Stati ove il risultato elettorale è stato contestato?
Per la semplice ragione che gli stessi Governatori e le Autorità che hanno certificato l’esito della votazione, si sono tenacemente opposti, mentre, come si è detto, i Tribunali e le Corti hanno assunto decisioni pilatesche, compresa la Corte Suprema che, ad esempio, ha respinto il ricorso proposto dallo Stato del Texas per l’asserito difetto di legittimazione attiva.
Una situazione a dir poco paradossale, tanto più che la divulgazione delle prove dei brogli a seguito delle audizioni disposte in alcuni parlamenti statali, grazie all’instancabile lavoro dello stimato ex sindaco di New York Rudy Giuliani, ha fatto crescere la consapevolezza diffusa nella popolazione della probabile fondatezza delle accuse, sostenute da prove “non evidenti” solo a giudizio dello sfuggente ex ministro della giustizia Barr, il quale, coerente con la decisione di sottacere la notizia delle indagini per riciclaggio a carico di Hunter Biden, ha ritenuto di non avere sufficienti elementi per indagare sui brogli elettorali.
A questo punto, per il pugnace e coriaceo Donald si è messa male ed ha commesso l’errore di credere che il parlamento, riunitosi il 6 gennaio in seduta plenaria per “convalidare” l’esito delle votazioni, avrebbe potuto respingere i voti contestati, facoltà che, secondo alcuni costituzionalisti, poteva esser esercitata direttamente dal vice presidente Mike Pence, chiamato a presiedere l’assemblea plenaria.
Una soluzione alternativa di compromesso, inoltre, era stata offerta dalla mozione a firma di 12 senatori capeggiati dal texano Ted Cruz, il quale proponeva l’istituzione di una commissione d’inchiesta per indagare sui brogli, composta da 5 parlamentari repubblicani, 5 democratici e 5 giudici della Suprema Corte che, nel termine di 10 giorni, avrebbe dovuto acquisire e valutare le prove e poi depositare una relazione.
Un’indagine che, tuttavia, avrebbe messo in serio pericolo le poltrone degli stessi parlamentari, eletti anche grazie al sistema di conteggio dei voti eseguito dalle macchine Dominion.
Quindi, come direbbe Leonardo Sciascia, avrebbero dovuto indagare se stessi, con il rischio di perdere la poltrona.
Il noto avvocato georgiano Lin Wood, fedele e convinto sostenitore di Trump e patrocinatore, insieme alla coraggiosa avvocatessa Sidney Powell di azioni giudiziarie parallele a quelle proposte dai legali del Presidente, aveva ripetutamente provato ad avvisare quest’ultimo prima che anche il suo profilo Twitter venisse rimosso dalla censura, accusando con anticipo il vice Presidente di esser un “traditore” e prevedendo che il 6 gennaio Trump sarebbe finito in una trappola.
Ma Donald non poteva sfuggire al suo destino e meno che mai al suo principale avversario: se stesso.
Perché, pur a voler ignorare la questione dei brogli, appare evidente come molti cittadini, più che votare per il tremolante e macilento candidato di facciata sostenuto senza badare a spese da Big Money, Big Pharma e Big Tech e per la cui elezioni il solo Zuckerberg avrebbe investito 500 milioni di dollari, abbiano piuttosto votato contro Trump, ritenuto forse responsabile di non aver saputo gestire in maniera adeguata l’epidemia provocata dal China Virus.
L’incontenibile irruenza e l’ottimismo sconfinato del personaggio hanno fatto il resto.
Trump non poteva non prevedere, non solo l’opportunistico voltafaccia di Pence, ma anche il rischio di non controllare una marcia di forse più di un milione di sostenitori, eccitati dal suo discorso tribunizio, a dir poco infuocato.
Poteva andare peggio e verificarsi una strage e la responsabilità politica sarebbe stata del Presidente, il quale ben avrebbe dovuto prevedere che tra i manifestanti pacifici e disciplinati, potesse inserirsi un drappello di facinorosi e persino prezzolati agenti provocatori.
Trump è dunque vittima prima di tutto di Trump, al punto d’aver innescato un meccanismo d’autodistruzione che ha finito per far passare in secondo piano l’importante discussione parlamentare sui brogli, pur sostenuta da oltre 100 parlamentari, il cui lavoro è stato tuttavia turbato dai facinorosi, entrati sin troppo facilmente nel palazzo del Campidoglio.
Un’occasione imperdibile che gli avversari politici, soprattutto quelli all’interno del suo partito capeggiati dal potente senatore Mitch Mconnell, non si sono certo fatti sfuggire.
La Santa alleanza Big Tech – Democratic Party si è subito attivata per condurre a termine l’opera di censura già pesantemente svolta durante tutta la campagna elettorale, sino al punto di chiudere definitivamente i profili Facebook e Twitter, non solo dello scomodo e irruento Presidente degli USA, ma anche dei suoi più importanti sostenitori.
Un’operazione di censura che lascia presagire già quale regime intendano instaurare i cosidetti democratici.
Vincenzo di Nanna