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CORALE: SETTIMANALE DI RICERCA SULLA POESIA ITALIANA CONTEPORANEA

Poeta: CHIARA ALBANESE

da "Oracoli del Sud" di Chiara Albanese, in "Il cormorano Bryan" (Puntoacapo 2020)

ORACOLI DEL SUD

La croccantezza
è sempre la stessa:
un frusciare d’ali
il vento che fiata

e la voce gialla.

Roca di grotta e faglia.

 

NOTA DI LETTURA

Jack Kerouac, a conclusione della sua introduzione al volume fotografico di Robert Frank, “Gli Americani”, nell’edizione Grove Press del 1959 – perché essere poeta, sia chiaro, significa avere un particolare sentimento della vita, che può essere compiutamente espresso in tutti i linguaggi dell’arte e non solo nel verso –, si rivolge direttamente al grande fotografo e gli dice: “tu sai vedere”; e allora possiamo dire ragionevolmente lo stesso di Chiara Albanese per questo suo esordio in poesia, atteso, meditato, curato, seguito, perché questo poeta dimostra da subito, appunto, di saper vedere.

E, ancora, è utile chiarire che cosa sia un artista e che cosa significhi vedere in arte.


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Un artista è quella persona particolarmente dotata di capacità di visualizzazione e di descrizione; e vedere in arte significa saper tradurre le immagini in linguaggi che siano artistici – come con la scrittura ma anche con la pittura, la scultura, la fotografia, il cinema, il teatro, la recitazione, la musica, la canzone ecc. – attraverso l’utilizzo degli strumenti propri di chi compie questa azione di rappresentazione, a partire dal corpo dell’artista: il corpo, e non la mente, è il primo strumento dell’uomo.

Ma tornando più precisamente alla poesia e a “Il cormorano Bryan” di Chiara Albanese, bisogna far rilevare che qui il poeta già dimostra di sapere – come può sapere il poeta, cioè senza pensarci ma solo con l’istintiva Intelligenza del corpo, ancora – che quando si parla di lingua o, meglio, di linguaggio proprio del poeta, si intendono un tratto e un segno e un suono riconoscibili ma anche che tutto questo non significa e non deve significare che ci si debba appiattire dentro uno scrivere sempre uguale, monotono, sempre originale, cioè primitivo, perché il linguaggio del poeta autentico – quando questo è maturo e proviene da una lunga e continua ricerca tutta dentro la parola – “sa” che la sua propria voce deve avere toni, colori, volumi e forme diverse e che devono rinnovarsi, inevitabilmente, a ogni nuova visualizzazione che intendesse riportare descrivendola nel testo – appiattimento che invece possiamo registrare nei più noti e “sponsorizzati” versificatori pubblicati oggi in Italia, vecchi e, ahimè, giovani, oltre a denunciarne la totale mancanza di talento di questi “nuovi atei” Dottori della Legge.

Infatti nel libro della Albanese possiamo trovare componimenti di “varia fattura”, vale a dire di quelli estremamente compatti e musicali, come pure di altri più estesi che hanno un passo più discorsivo, più narrativo – e, che sia chiaro, l’arte è sempre racconto di qualcosa, di un accaduto –, ma che restano sempre all’interno di una partitura che sia di Poesia e mai scadendo nella prosa – altro vizio della nostra peggiore poesia non poesia, quella più spinta e più raccomandata dai sempre deplorevoli Professorenpoesie, come già denunciava F. L. Lucas, all’alba della catastrofe che si stava per abbattere sulla poesia mondiale, in una lucida recensione sulla pagina culturale de “The New Statesman” del 3 novembre 1923 in merito alla pubblicazione di “The Wast Land”, che inaugurò l’avvento della poesia scolastica, quella dei professori appunto, tutta scritta a tavolino, tutta pensata, tutta di maniera, tutta invertebrata, “che trova nella letteratura l’ispirazione che la vita non offre più, e rimpiazza la profondità con la torbidità, la bellezza con gli echi, la passione con la necrofilia […]”1 – e il tutto sempre ben centrato nello spazio di una singola pagina, soluzione questa pregevolissima.

E poi le poesie contenute nella esile ma robusta silloge che ci presenta il verso di Chiara Albanese, sono tutte ispirate dal soffio; e hanno tutte grazia e anima perché sono miracolosamente liberate da qualsiasi spinta narcisistica; e scrivo e dico anima perché non ci può essere poeta e non ci può essere Poesia dove si manchi di spiritualità, cioè dove non si riconosca la spiritualità come parte preponderante dell’uomo, del nostro corpo terreno, qualsiasi siano la domanda e la risposta di fede dentro il Mistero che innegabilmente abita dentro ognuno di noi.

E, ancora, a conclusione di questa mia nota introduttiva a “Il cormorano Bryan”, già come fece nel ’59 l’inarrivato poeta americano, anche io voglio dire una cosa a Chiara Albanese: quella donna che si prepara per il ṣalāt al-fajr del mattino, come si chiama? Dove abita?

MASSIMO RIDOLFI

  1. S. Eliot, La Terra Desolata, BUR Poesia, Milano, 1985, p. 35.

ASCOLTA QUI I VERSI: https://youtube.com/shorts/pl8xPMbPB1E?feature=share .