CORALE: SETTIMANALE DI RICERCA SULLA POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA
Poeta: SAVERIO BAFARO
da “Estetica non-aristotelica” di Saverio Bafaro, in “Poesie del terrore” (La Vita Felice 2014)
ESTETICA NON-ARISTOTELICA
Noi che abbiamo scelto il Brutto
e letto al contrario il libro dello Stagirita
conosciamo i risvolti
dell’armonico divenuto sghembo
del calmo divenuto irrequieto
del limpido divenuto oscuro
dell’ordine divenuto caos
del simmetrico non più tale
delle proporzioni volutamente saltate
NOTA DI LETTURA
La poesia non deve emozionare – un buon libro di poesie non è un contenitore di emozioni domestiche, di testi ammansiti fino al sonno, addestrati sulla pagina come capitassimo dentro un circo: no! la poesia non deve emozionarci ma riguardarci, appartenerci, scuoterci e restarci scomoda al pensiero, fastidiosa. Ma certamente ogni poesia porta in sé a volare un seme in cerca di un terreno che sia fertile, che protegga dall’inverno e che liberi il fiore in primavera. Ma fertile non vuol dire buono, o che il suo frutto sarà dolce; non vuol dire una garanzia contro l’agro della vita. Fertile è l’indifferente fabbrica della Natura: “Sappiate dunque che io non ho usato la parola impassibilità nel senso di insensibilità o mancanza di partecipazione alle cose del mondo e alle afflizioni umane. Impassibile è il poeta che, còlto dall'ispirazione, può volgerla indifferentemente su ogni aspetto come si diffonde la luce.”1 ci ricorda, dimenticato, Vincenzo Cardarelli (1887-1959). Vale a dire che il poeta, liberamente, con il suo sguardo, diffonde la luce sulle cose dell’uomo, lì dove luce prima non c’era, ma ben salvo dall’emozionale, ben saldo al suo proprio cinismo di strumento naturale, direbbe una altro grande Nostro poeta, Leonardo Sinisgalli (1908-1981).
La poesia è dunque un pungolo, uno spino, un ciottolo tagliente che va a complicare il camino.
Bertolt Brecht (1898-1956), il poeta più coraggioso del ‘900 – pieno di quel coraggio che mancò invece, un secolo prima, a Charles Baudelaire (1821-1867), cioè quello necessario per riuscire a liberarsi della forma, per rischiare poesia oltre il canone –, in una sua nota a proposito dei suoi versi e della lirica che aveva intorno, dice che i ritmi regolari lo facevano addormentare perché tale forma non poteva in nessun modo, così levigata, contenere il trambusto di quel suo secolo, che prima di consumare la sua prima metà si era già visto fare da ventre a due guerre mondiali. E allora necessitava uno strappo che fermasse, interrompesse quel livellamento formale che “rendeva indistinta e armonica ogni cosa”, che pareggiava i conti con la coscienza mancando scientificamente di realismo, di Vero. Da qui la sua poesia nuovissima perché non rimata con ritmi irregolari; non ninnata.
Saverio Bafaro qui sembra raccogliere questa Lezione, il lascito del grande esule di Augusta, e la fa propria infastidendo il suo lettore, al quale non concede una seduta comoda da dove poter rimirare l’orizzonte, che costringe allora con un certo sadismo a rivolgere lo sguardo proprio su se stesso, riducendolo a un contorcimento spastico, doloroso, scomodo, che lo riguarda, che gli appartiene, che lo lascia lì a scuotersi tutto il tempo, che non dà pace, che ripete: “Mangiate piano l’amore integro, / mangiate piano l’amore vero!” Mangiare il Vero! Nutrirsi solo di vera poesia. Quella che lascia integra la vita, a crudo. Quella che non ha ricette per cuocerla. Che non prova a lavorarne le fibre a intenerirla. Quella che ci riporta integri individui riconoscibili e terrorizzanti.
Il lavoro di Bafaro ci ricorda che di questo uomo non c’è nulla da ninnare perché la media umana è spaventosa e assassina. E così il poeta cosentino lascia dietro di sé lo spino, il ciottolo tagliente.
MASSIMO RIDOLFI
ASCOLTA QUI I VERSI:https://youtube.com/shorts/4kT0NpFALjE?si=6596nQRX_duVo9pb .