SETTIMANALE DI RICERCA SULLA POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA
Poeta: GIORGIO LINGUAGLOSSA
da “agli stagni Patriarsci, II” di Giorgio Linguaglossa, in "Poetry kitchen" (Edizioni Progetto Cultura 2022)
AGLI STAGNI PATRIARSCI
(frammento)
«Sì, ma le parole non sono le cose»
Il Mago Woland replicò così dalla cabina telefonica
del Teatro Tenda del Circo di Mosca a 4 minuti a piedi dal Teatro Bolshoj
al filosofo Wittgenstein
«I walked in my hospital of thoughts»
glossò
il Signore altissimo e magrissimo della nota scultura
di Alberto Giacometti
che riprese a camminare dopo mezzo secolo di invarianza
come se nulla fosse
E aggiunse:
«Words prefer to go fry themselves
ibidem the black words ibidem the white words»
(traduzione: Le parole preferiscono andare a farsi friggere
ibiden le parole nere ibidem le parole bianche)
NOTA DI LETTURA
Ecco, la poesia di Giorgio Linguaglossa è difficile da inquadrare criticamente – anche appoggiandosi al Futurismo, ai Dada, o ad altro sito di automatismi scrittori (scultorei, diciamolo pure) si rischia di scivolare culo a terra; e anche certo sperimentalismo del Gruppo ‘63 (e pronipoti minori, minorili, e minorati) non si adegua a parlare del suo (e solo suo) scrivere versi.
Per trovare un qualche conforto filologico per cercare, tentare, di scrivere, di dire qualcosa di non superfluo sull’opera di Linguaglossa, allora, bisogna aggrapparsi a un apparecchio televisivo – che è l’oggetto più lontano da un libro, da uno strumento concepito per la conservazione del testo letterario, che resta tecnologicamente il più avanzato. Sì, perché solo del Blob di Enrico Ghezzi troverei qualcosa che possa in qualche modo riguardare il battere il tempo secolare di questo poeta (seppure nella lontananza dei mezzi espressivi, si è detto: anche la televisione, oramai archeologia della comunicazione, e ancora viva solo perché viva in un mondo buono solo per contenere vecchi – me compreso –, è fatta di metrica e, soprattutto, di ritmo, vale a dire ha una sua forma storicizzata, tradizionale, e non sono affatto nuovi i canali sulla rete, anche i più privati e insignificanti). Ma Linguaglossa usa la parola per creare il suo altrimenti inimmaginabile immaginario, e riesce a conservare il lemma vivo: pure nella sua più estrema distorsione di significante e significato riesce a dircene il senso del reale, e con una capacità e potenza critica scioccante, carsica, tutta sottotesto. Tutta detta in filigrana sta la ricchezza del suo dirci le cose del mondo che ci attraversano e formano malgrado noi, vittime e carnefici tutto in uno, tutto riprodotto nel corpo testuale che la sua cucina sa offrici sul menù di oggi, e di domani, rigorosamente a la carte. Quando si scrive l’importante è essere veri, perché altrimenti non c’è nulla di più falso di una poesia.
Ma non basta dire questo per cercare un punto di svolta nel lavoro di questo poeta, perché quella di Linguaglossa è l’opera di un intellettuale, vale a dire di quell’artista che, nell’opera e fuori dall’opera d’arte, ragiona della società nel quale vive.
Quella cui da due anni (da sempre direi) sta dando generosamente spazio corpo e voce Linguaglossa, mi pare sia una corrente letteraria a tutti gli effetti, un fatto straordinario in Italia almeno dal ’63; fatto quanto mai importante in un mondo letterario italiano sempre più individualista, chiuso in pochi giri, due o tre incroci di vie di Roma o di Milano, che per questa sua indole solipsistica ha sempre faticato a riconoscersi, a riunirsi compiutamente, a farsi movimento e istanza politica. No: Linguaglossa sa percorrere agilmente e interamente questa nostra piccola Repubblica delle Lettere donandole una ampiezza di respiro mai goduta prima d’ora. Assolutamente da tenere in attenzione. Ma tutto questo non verrà compreso dalla medietà della critica militante italiana almeno fino ai prossimi cinquant’anni.
MASSIMO RIDOLFI
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