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Rileggere gli articoli di stampa del passato è illuminante: si può cogliere il senso di chi scriveva quando lo scriveva e valutare ciò scriveva alla luce di quando avvenuto dopo ciò che scriveva. Ci si può chiedere: che valutazione dava chi scriveva delle acque del fiume (la realtà che scorreva) in cui si trovava immerso e che valutazione possiamo dare noi oggi, sapendo che percorso hanno seguito quelle acque e in quale modo e dove sono sfociate? Di quali altri fatti successivi quei fatti descritti sono stati prodromici o addirittura le cause? Proviamo a fare un raffronto tra la scrittura di ieri e la lettura di oggi. Insomma, leggiamo il passato alla luce del presente. Vediamo dove ci porta l’operazione. Prendiamo come primo banco di prova un articolo pubblicato sulla pagina teramana del quotidiano romano “Il Tempo”, ben 72 anni fa, il 1° luglio 1951, intitolato: “L’edilizia cittadina di Teramo problema della nuova amministrazione”. Ne era autore Giuseppe De Sanctis, il popolare Peppino, impiegato comunale di Teramo e giornalista per passione, da me conosciuto quando lui, già anziano, scriveva sulla pagina teramana de “Il Messaggero” nella quale io nei primi anni sessanta venivo pubblicando i miei primi articoli.
Che cosa scrive De Sanctis? Che Teramo è arretrata tra le altre città abruzzesi perché si costruisce poco: si fanno tanti bei progetti, tante chiacchiere, ma si mettono pochissimi mattoni.

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Bisogna considerare che all’epoca tutta l’economia teramana si basava non sull’industria (al di là da venire e poi in realtà mai venuta), non sul commercio (che era povero ed esangue), non sul turismo (non ci si è mai puntato davvero), non ancora sui depositi bancari (questo settore sarebbe esploso solo in seguito e soprattutto grazie ai palazzinari arricchiti), ma sull’edilizia. Venivano emergendo le imprese dei costruttori rampanti, a cui interessava solo costruire perché là stava il guadagno, e a loro non importava che si costruisse ex novo su terreni edificabili o si ri-costruissero edifici nuovi previo abbattimento di quelli esistenti, indipendentemente dal valore storico e architettonico di ciò che veniva abbattuto. Di ciò che veniva abbattuto qualcosa era fatiscente ed effettivamente decadente, ma qualcosa era integro, costruito anche da poco tempo, ma “l’affare” consisteva nell’abbattere e ricostruire ex novo, spesso nemmeno aumentando la cubatura. Importante era mettere un mattone sopra l’altro e usare il cemento, specie se armato.
Ecco, dunque, che il buon vecchio Peppino De Sanctis si lamenta che a Teramo di mattoni se ne mettano pochi. E perciò l’economia è ferma. Se la prende con quanti, petulanti e noiosi scocciatori, intralciano le sane iniziative edilizie con le loro “lacrime di nostalgia” per l’abbattimento di un pino, resosi necessario per sgomberare un’area fabbricabile, o recriminavano che la costruzione di un palazzo avesse tolto in parte la visuale dei monti, “e altre sollazzevoli piacevolezze del genere”. Quello che occorre è “fabbricare subito e molto, ponendo al bando tutti i pregiudizi di natura paesistica, dinanzi al bisogno inderogabile di dare case comode e decenti alla popolazione che giustamente le reclama per migliorare il suo tono di vita attuale”.
De Sanctis fa degli esempi: nella costruzione del palazzo Incis in viale Mazzini, ai Tigli, si è dovuto rinunciare ad un piano, e accontentarsi perciò di soli venti appartamenti, perché c’è stato chi ha denunciato che il nuovo edificio avrebbe impedito da un certo punto di Piazza Garibaldi la visione del Gran Sasso. E meno male che si è trovata la soluzione della rinuncia dell’ultimo piano, perché gli scriteriati oppositori pretendevano addirittura che l’intero palazzo venisse spostato di una decina di metri. Altri nemmeno dello spostamento erano contenti, perché dicevano che, pur spostando il palazzo, il Gran Sasso sarebbe stato visibile da un punto e non visibile da un altro. Sarcasticamente De Sanctis commenta che, se un uomo mette l’occhio destro dietro un albero, non vede, ma gli basta fare un passo di lato per vedere tutto. Comunque con quella storiella, nemmeno ben trovata, sono riusciti, se non a far spostare il palazzo, cosa che avrebbe comportato la perdita di 150.000 lire, a ridurre di un piano l’edificio, con la conseguente perdita di quattro appartamenti.
De Sanctis fa altri esempi. Altri due palazzi Incis non sono stati costruiti perché l’ente, per evitare i vincoli che gravavano sui terreni, ha venduto le aree ad altri che hanno iniziato a costruirvi prima ancora che la vendita fosse stata approvata. Di fronte allo strano procedimento, l’Incis ha ritirato i fondi già versati e gli edifici non sono stati più costruiti. Solo nel 1949 ha edificato il secondo palazzo “svisando l’architettura di piazza della Libertà”, con l’intesa che avrebbe potuto costruirne un terzo, adiacente al primo di viale Mazzini. Ma il Comune ha sudato sette camicie per vincere le resistenze di quanti si credevano “preposti alla tutela del paesaggio”, ai quali premeva soltanto la visuale del Gran Sasso, ritenendosi “virtuosi del paesaggio”. Così l’Incis ha rinunciato al suo programma di ulteriori costruzioni a Teramo, spostando la propria attenzione in altre città, dove si parla poco, ma in compenso “si mettono alacremente molti mattoni”. La nuova amministrazione comunale di Teramo, conclude De Sanctis, è chiamata a risolvere, fra i molteplici problemi di Teramo, la delicata situazione della carenza degli alloggi. Dovrebbe riprendere i contatti con l’Incis per tentare di fargli realizzare il suo terzo palazzo. Si dovrebbe anche incoraggiare l’iniziativa dei privati cittadini che hanno costituito delle cooperative edilizie e che trovano intralci burocratici di ogni specie nel rilascio di atti amministrativi.
L’articolo di Giuseppe De Sanctis rispecchia il pensiero dei teramani del suo tempo. Quale sarà il pensiero e quale il giudizio dei teramani di oggi?

Elso Simone Serpentini