Davvero rileggere gli articoli di stampa del passato è illuminante. Per esempio si riesce a capire come negli anni ’50 del secolo scorso veniva vissuto il fenomeno dell’urbanesimo: affluivano numerosi a Teramo città elementi provenienti dalle campagne, in cerca di un posto di lavoro e di una casa di civile – ma spesso civile non era - abitazione. Molti, grazie ai propri santi in paradiso, diventavano infermieri all’ospedale. Come venivano accolti? Non proprio benissimo, stando a quanto scriveva “Il Tempo” in un articolo del 22 dicembre 1951. Titolo: “Anche a Teramo si sente la piaga dell’urbanesimo”.
Nel sommario di leggeva: “Mentre i cittadini vengono messi in disparte, elementi provenienti dalle campagne riescono ad occupare metodicamente posti ed impieghi”. Nell’articolo si leggeva che si trattava di un tipico fenomeno del dopoguerra, una “piaga purulenta” che destava preoccupazioni, che il governo e i partiti per ragioni elettorali ignoravano. Si intravedevano già “i prodromi e le gravi conseguenze” di quella che sarebbe stata una futura calamità. L’Italia era una nazione prevalentemente agricola e l’urbanesimo sottraeva alla terra quelle che un giorno si sarebbero chiamate “risorse umane”. Il progresso e la civiltà, scriveva Giuseppe De Sanctis nell’articolo de “Il Tempo”, avevano quasi del tutto eliminato l’analfabetismo, che un tempo regnava tra “le genti rurali”, ma non si sapeva se questo era un bene o un male per la Nazione. Un volta i figli dei contadini si arruolavano tra i carabinieri, ma oggi, dopo aver fatto passai da gigante, si trovavano tra gli ingranaggi della burocrazia e i gangli dei servizi pubblici, erano guardie giurate, guardie campestri, vigili urbani, vigili del fuoco, infermieri negli ospedali, messi ed uscieri e perfino impiegati di concetto. “Tristo fenomeno” l’urbanesimo: tutti volevano accostarsi alla città. “allucinati da chissà quali fantastici miraggi”, le campagne si spopolavano e la città era sovrappopolata, l’amore per la terra tramontava e la città era congestionata di traffico e pullulava di abitanti di ogni ceto sociale, alla ricerca affannosa di abitazioni. Non pochi “elementi rurali” avevano acquistato in città case e palazzi, eppure l’emigrazione all’estero si era intensificata e la disoccupazione era aumentata, sebbene il bracciantato nell’industria venisse continuamente rinsanguato con elementi provenienti dall’agricoltura. Non pochi di questi erano diventati anche artigiani.
La popolazione scolastica cittadina, si chiedeva l’articolista, veniva censita? Se il Provveditore agli studi si fosse presa la briga di censire il numero esatto dei figli di agricoltori, di mezzadri, di coloni e di braccianti agricoli che frequentavano le scuole cittadine, si sarebbe trovato davanti ad “una cifra impressionante e sbalorditiva”. Solo da Torricella venivano almeno cinquanta studenti, eppure il paese non superava i mille abitanti. Era una percentuale astronomica! Cifre che rappresentavano “una realtà viva e preoccupante”. Il Seminario di Teramo, particolarmente affollato, contava almeno l’80% di figli di agricoltori, cioè di gente che si disponeva fin da ora ad abbandonare la terra tradizionale dei loro padri ed avi. Anche nel convitto “M. Delfico” c’era un’alta percentuale di studenti figli autentici di agricoltori.
In questo modo, dove si sarebbe andati a finire? I cittadini autentici venivano tranquillamente lasciati a morire di fame, mentre elementi provenienti dalla campagna occupavano metodicamente posti ed impieghi negli uffici pubblici e privati. Si trattava di “un’opera di scalzamento e di superamento”, diceva il giornale, che proseguiva a ritmo crescente, per niente frenata dalle autorità governative. L’agricoltura si impoveriva e la città si trovava sotto una piovra, preda della conquista affannosa di quelli che abbandonavano la terra. Questa era “la tragica realtà” del dopoguerra, sulla quale occorreva “porre lo sguardo con legittima preoccupazione, per porvi un freno od almeno una limitazione con organiche leggi dello Stato.”
Così la stampa teramana nei primi anni ’50 del secolo scorso parlava della “piaga” dell’urbanesimo, vedendo le scuole affollarsi dei figli dei contadini, i migliori posti di lavoro andare a loro, la città sofferente fra i tentacoli di “una piovra”, case e palazzi finiti nella proprietà di gente che abbandonava le campagne e impoveriva l’agricoltura, alla ricerca affannosa di vani di casa che pretendevano fossero addirittura di “civile abitazione”. Incredibile oggi, ma allora era così. Questo a Teramo si pensava, questo si diceva, e questo la stampa teramana scriveva, facendosi interprete di chi lo pensava e lo diceva.
Elso Simone Serpentini