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IERIOGGI.jpgIo c’ero. Ero seduto sui banchi del consiglio comunale di Teramo quando, 51 anni fa, nell’ottobre del 1972, arrivò all’esame di noi consiglieri – io di minoranza - l’affare “Castello della Monica”. Si doveva decidere cosa fare di quel non tanto antico castello, fatto costruire a suo sogno e a sua somiglianza, dal pittore Gennaro Della Monica, al centro del suo immaginifico “borgo medievale”.
Finito nelle mani del suo discendente Pasquale, anche lui consigliere comunale (poi sarà anche consigliere e assessore regionale), chi ne aveva la proprietà aveva deciso di disfarsene o quanto meno di alleviare le spese di mantenimento, piuttosto costose, di un manufatto di cui si doveva decidere il destino.
Il proprietario aveva presentato una domanda, facendo una proposta che non trovava tutti d’accordo nello stesso gruppo di maggioranza, che si presentò spaccato alla riunione decisiva.
Ne scriveva “Il Tempo” del 15 ottobre 1972, che titolava: “Dibattito aperto per il verde al Castello della Monica” e nel sommario scriveva: “Si vedrà anche se la frattura che si è prodotta sull’argomento all’interno della DC avrà conseguenze ufficiali – Una serie di vivaci reazioni”.
Dibattito aperto, dunque, per il verde adiacente al Castello.
I fatti erano noti, diceva il giornale, un cittadino aveva chiesto all’amministrazione comunale di poter esercitare un diritto che gli veniva riconosciuto dal piano regolatore. C’erano molti precedenti attorno al castello che testimoniavano la larghezza con la quale in passato erano state concesse “licenze edilizie per una corsa pazzesca all’alterazione di tutto il quadro ambientale”.
E ora che si voleva fare?
Si voleva vietare all’ultimo arrivato ciò che ad altri era stato largamente accordato?
Non si potevano adottare due pesi e due misure, specialmente quando c’era in ballo un progetto che, rispetto ai danni che già si vedevano, intendeva proporre “una soluzione architettonicamente sobria per riequilibrare e ristrutturare la zona”.
Ma c’erano quelli che volevano imporre un “nuovo caso” alle vicende urbanistiche, un lavoro improbo. Per il caso del castello Della Monica s’era avuta una clamorosa presa di posizione dell’avv. Lino Nisi, capogruppo della DC. Che aveva bollato la proposta con una linea di intransigente dissenso. C’era grande scalpore negli ambienti cittadini e si attendeva la decisione che avrebbe preso il consiglio comunale.
Come avrebbe sanato la sua spaccatura interna il gruppo democristiano?
Intanto il giornale dava conto di una presa di posizione di Giammario Sgattoni, ispettore onorario ai monumenti, il quale aveva dichiarato che danni urbanistici intorno al castello Della Monica ce n’erano a bizzeffe, ma questo non costituiva una buona ragione per continuare. C’erano soluzioni alternative. Ideale sarebbe stato l’intervento della Cassa per il mezzogiorno, per destinare il verde a parco pubblico e il castello a museo. Ne avrebbero tratto vantaggio tutti e in primo luogo la città. Non era lecito accorgersi di certi errori solo a distanza di anni, aveva detto Sgattoni. Faceva testo il caso del defunto giardino Delfico, al cui posto era sorto il palazzone Inail.
Lo stesso discorso valeva per il palazzo della Sanità, che aveva rubato una piazza alla città.
Quel che avvenne dopo quella riunione del consiglio comunale sarebbe troppo lungo da raccontare.
Si può solo dire che a lungo il castello Della Monica andò in cerca di una sua identità, di un suo ruolo e di una sua funzione, o, se preferite, di una sua vocazione.
Solo quest’anno, dopo ben 51 anni, il “maniero”, come lo chiamava “Il Tempo” del 1972, si è visto dare una “rassettata”, ma, dicono nemmeno definitiva e del tutto ben definita.
Ma i teramani hanno pazienza, possono aspettare, anche se di ciò che s’è fatto finora l’amministrazione comunale attuale mena gran vanto.

Elso Simone Serpentini

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