“Che l’avvenire ci illumini!”. Terminava così, con questa espressione che sembrava ed era un augurio un articolo de “L’Italia Centrale” di sabato e domenica 13 e 14 novembre 1920. Su che cosa i teramani si aspettavano di essere illuminati dall’avvenire? E noi, che viviamo nel 2024, a distanza di 104 da quel lontano e quindi in quell’avvenire dal quale i teramani di allora si aspettavano di essere illuminati, noi che possiamo e dobbiamo considerare passato un bel tratto temporale di quello che per i teramani del 1920 era l’avvenire… che possiamo dire? Che possiamo pensare? Che sappiamo? Intanto partiamo da un dato: su che cosa i teramani del 1920 si aspettavano di essere illuminati dall’avvenire? La spiegazione ce la dà già il titolo dell’articolo, su una sola colonna, perché allora i giornali erano assai parchi sui titoloni e ne facevano di rado, praticamente ad ogni morte di papa o di re. Il titolo era: “Il nuovo monumento nazionale”, quindi il futuro avrebbe dovuto illuminare riguardo i monumenti di Teramo. Ce n’erano parecchi, diceva l’articolo, e ne citava qualcuno, primo fra tutti quello di Porta Romana, la scritta su pietra “A lo parlare agi mesura”. Ma quello per l’incuria del Governo e delle amministrazioni comunali, “passate, presenti e certo future”, era più che abbandonato al destino del mucchio di macerie. Altri monumenti si trovavano nelle chiese, mai valorizzati come si sarebbe dovuto, ed era meglio tacere su quelli che avrebbero potuto “dare la fisionomia” della storia di Teramo.
Ma chi avrebbe mai immaginato, si chiedeva l’articolo con ironia, che Teramo avrebbe avuto un nuovo monumento nazionale nei portici dell’antico Caffè Sardella? Di interrogativi “L’Italia Centrale” se ne poneva un altro: per quale manovra “una legittima rappresentanza municipale” aveva emanato il decreto che avrebbe impedito l’evolversi – sia pure male e a sproposito – della città? Che ne sapeva il Sovrintendente agli scavi, l’autorevole Comm. Francesco Savini? Non ne sapeva nulla il Consiglio di quella Sovrintendenza? Non ne sapeva nulla il Municipio? E nulla i deputati? Da quanto si legge nell’articolo si capisce che il decreto a cui si accennava aveva decreto l’intoccabilità dei portici dell’ex Caffè Sardella: non si potevano e non si dovevano abbattere. L’on. Guido Celli aveva telegrafato annunciando che si sarebbe adoperato per far revocare il decreto, ma questo non era sufficiente, avrebbe dovuto unirsi a quanti deploravano un decreto subdolo di cui erano evidenti i secondi fini. La cittadinanza aveva il diritto di governarsi da sé come meglio credeva sul piano edilizio e di non essere impedita da “azioni clandestine”, ma il male forse non era giunto inopportuno. Gira e rigira, il taglio proposto non era la cosa più bella di questo mondo né la cosa più utile per Teramo. Il taglio proposto distruggeva una comodità – le logge – a parte la ridicola affermazione che fossero un monumento nazionale, ma non allargava la strada, impegnava spaventevolmente il presente e l’avvenire del bilancio e non risolveva l’estetica, perché abbatteva il porticato sul corso, ma lasciava quello che si affacciava sulla piazza. Il giornale aveva taciuto perché si era fatto sperare che si realizzasse, perpendicolarmente al corso, nel mezzo dell’isola che si sarebbe ricavata, una galleria che sarebbe andata a sbucare nella strada dei Tribunali, cosa che avrebbe dato un certo gusto artistico alla progettata opera. Ora, però, la speranza della galleria era tramontata, perché l’avv. Arturo Massignani aveva fabbricato dall’altra parte secondo i suoi speciali disegni e secondo i suoi diritti e interessi, e l’autorità municipale non era intervenuta. Perciò ora c’era l’obbligo di realizzare il taglio del corso per le ragioni dette e richiamare su questo la pubblica attenzione. Era inutile illudersi, concludeva l’articolo: quell’isola non sarebbe stato bene sistemarla se non quando un’amministrazione comunale non si sarebbe persuasa - e la cittadinanza lo avrebbe voluto – che sarebbe stato necessario realizzare un porticato simile a quello Pompetti, dall’altra parte del Corso (quelli chiamati portici alti), o niente. E sarebbe stato facile “un domani”, un “lontano domani”, realizzare una grande e bella galleria. Per questo non si deplorava mai abbastanza la guerra fatta dal Comm. Venditti, che aveva eseguito genialmente e a sue spese i suoi progetti, impegnando anche l’appaltatore, risolvendo il difficile problema che sarebbe tornato in gola tutte le volte che si fosse provato a risolverlo. “Che l’avvenire ci illumini!” concludeva l’articolo, come riportiamo all’inizio. Che illuminazione portò ai teramani del 1920 l’avvenire che poi per noi teramani di 104 anni dopo è diventato un passato? I portici bassi, quelli dove era stato il Caffè Sardella sparirono e diventarono “alti” come gli antistanti portici alti, i portici Pompetti, che proprio in questi giorni sono cantierati per un riattamento, la galleria non venne mai fatta, anche se a volte nel corso degli anni l’idea tornò a rispuntare. Quanto a tutti gli altri monumenti… Basta pensare a quella iscrizione lapidea che nel 1920 già si diceva in preda all’incuria, ma stava ancora incastonata nella casa degli Antonelli, che poi venne abbattuta e oggi è solo una pietra più citata che conosciuta, di cui solo pochi conoscono l’attuale vera collocazione.
ELSO SIMONE SERPENTINI