“Il Tempo” del 27 marzo 1952 pubblicava un articolo di Giuseppe De Sanctis il cui incipit era davvero un pezzo poetico. Talune sere, scriveva il popolare “Peppino” (che io poi ebbi collega nella redazione teramana de “Il Messaggero”, quando pochi anni dopo cominciai a collaborare), l’animo umano sentiva la necessità dell’isolamento e della contemplazione e si era portati a sostare in certe strade lontane il più possibile dal frastuono e dalla confusione delle strade del centro. Erano quelle vecchie strade per passanti fuori mano, anche se rasentavano il cuore della città, dove c’erano umili botteghe nelle quali si lavorava fino a tardi e dove le persone camminavano rasente i muri, gesticolando ogni tanto e parlando da soli per poi fermarsi, magari, sotto un lampione per contare le poche banconote rimaste. Beh, lo aveva fatto anche lui, il buon “Peppino”, era passato in quelle strade popolate di una dolente umanità, per la quale tutta la vita era solo amarezza, si era cacciato nel dedalo di viuzze di un rione popolato di fondaci oscuri e malsani, in cui la gente dormiva su brande e pagliericci, in quel rione di Santa Maria a Bitetto di cui pochi giorni prima il sindaco colonnello Alfredo Biocca aveva parlato nella sala consiliare, commosso per il grave stato di disagio in cui versavano le povere famiglie residenti, che abitavano in certi tuguri che non avevano nemmeno l’aspetto di civili abitazioni per ospitare esseri umani. Il Sindaco aveva detto di voler eliminare una volta per tutte le sconcio, ne aveva parlato con il ministro Spataro in una visita di cortesia che gli aveva fatto e aveva avuto l’assicurazione che sarebbero state eliminate quelle vecchie case antigieniche, separate da vie strette ed anguste , quegli alloggi privi di servizi igienici. Il Sindaco aveva annunciato che il rione sarebbe stato “risanato”.
Così il titolo dell’articolo de “Il Tempo” era: “La situazione dell’edilizia teramana nella conferenza-stampa del Sindaco Biocca”. Il sommario diceva: “Gli sforzi dell’Amministrazione comunale sono protesi ad assicurare alloggi alle famiglie indigenti, con la costruzione di case minime. E’ necessario un finanziamento di almeno 450 milioni di lire – Il rione di S. Maria a Bitetto”. Le “case minime”, una volta costruire, avrebbero consentito di fornire alloggi alle famiglie che abitavano negli stabili da demolire, che abitavano nei fondaci ed erano indigenti. Erano anche il mezzo più efficace per risolvere il problema del risanamento igienico di Teramo, che costituiva il centro dell’attività dell’amministrazione comunale. Era grave la situazione del vecchio nucleo cittadino, costituito da casupole malsane, separate da vie strette dove era difficile perfino la penetrazione dei raggi solari. L’articolo era corredato da una fotografia che la didascalia diceva risalente al 1934 e ritraeva uno scorcio del vicolo Sant’Antonio, una trasversale di Via Muzi (sì, proprio quella che noi teramani di oggi abbiamo scavato trovando sotto il piano stradale un mosaico romano sul cui destino ancora non decidiamo nulla). L’edificio a destra, diceva la didascalia, era stato demolito e al suo posto era stato costruito un ampio e soleggiato edificio che ospitava il giardino d’Infanzia “Gemma Marconi”. La foto ritraeva “un’atra teoria di fondaci destinati a scomparire con la integrale esecuzione del piano di risanamento di S. Maria a Bitetto”. Con l’abbattimento dei caseggiati di sinistra, si leggeva ancora nella didascalia, il vicolo S. Antonio, sarebbe diventato finalmente una via e sarebbero scomparse le “topaie” dove “tanta povera gente era costretta a vivere in condizioni antigieniche e di avvilente promiscuità”.
Noi teramani di oggi sappiamo con quello che fu un vero e proprio “sventrameno”, forse furono migliorate le condizioni igieniche di una parte rivalente del centro storico, ma furono abbattuti edifici medievali, di cui non rimase che un solo isolato esemplare, e poi vennero abbattuti con la stessa giustificazione, ma in realtà per speculazione edilizia edifici seicenteschi e settecenteschi, stravolgendo la fisionomia della città e facendole perdere l’identità. Oggi noi teramani di oggi siamo pieni di rimpianto, ma un rimpianto finto, perché continuiamo ancora oggi ad abbattere e a sventrare, cercando di dare un senso a ciò che un senso non ce l’ha.