Nella sua “Introduzione storico artistica agli studi del piano regolatore della città di Teramo” (Teramo, Casa Editrice Tipografica Teramana, 1934-XII) Luigi Savorini VIII ricostruiva l’urbanizzazione della cosiddetta “terra nova” di Teramo dal principio dell’età moderna sino all’unità d'Italia. Chi osservava la veduta della città di Teramo del seicento, scriveva, si rendeva conto che in piena età moderna essa non era ancora interamente coperta di abitazioni, ma vi predominavano gli orti dei conventi e recinti di terre tenute a giardino o ad ortaggio di privati signori. Insomma, Teramo era la città degli orti. Nella “terra nova” le case d'abitazione si erano addensate da principio soltanto lungo le due vie principali: il Corso di Porta Romana e il Corso di S. Giorgio. In seguito erano andate formandosi nuove strade parallelamente alle prime e indispensabili per accordarle. Non essendoci un piano regolatore, avevano sopperito gli statuti e le ordinanze municipali, sicché, data anche la bella e comoda disposizione del terreno, la città nuova era sorta con vie abbastanza ampie e diritte, con piazze e larghi bene inquadrati. Da principio aveva avuto una maggiore importanza il Corso di Porta Romana, che Savorini già definiva al suo tempo “assai decaduto”. L’importanza derivava dal fatto che era la via da cui si usciva per Roma, quando sulla ripa sinistra non ancor devastata del Tordino poteva appoggiarsi immediatamente la strada che conduceva a Montorio.
Il Corso S. Giorgio, staccandosi dalla Piazza Maggiore, raggiungeva con un bel rettilineo quella che per tanto tempo s'era detta la porta Pretosa, ossia pietrosa, perché da essa s'introducevano in città le pietre travertine delle cave di Civitella del Tronto. Essendo la diretta prosecuzione del cardo dell'antica Interamnia, aveva da subito avuto una grande importanza, ancora conservata. Privo di costruzioni monumentali, perché di recente formazione, il Corso presentava soltanto due edifici di qualche interesse storico: il Convento e la Chiesa di S. Matteo,irriconoscibili sotto i rifacimenti posteriori, e l’antica casa dei Delfico, con architravi monolitici ornati di stemmi e di leggende e datati: 1550 sulla facciata anteriore e 1552 nella posteriore.
Tra il secolo decimosesto e il decimottavo era iniziato il lento progredimento edilizio della “terra nova”, con l’edificazione lungo il Corso S. Giorgio e le strade laterali di immobili per lo più di privata abitazione proporzionati alle modeste risorse dei tempi ed al gusto predominante dell'epoca: case di un sobrio barocco, quasi tutte ad un solo piano, con stipiti ed architravi di travertino di Civitella del Tronto ai portoni e alle finestre e balconi rigonfi in ferro battuto. Quasi tutte in questo stile, e così basse, erano le case che fiancheggiavano il corso, fino a quando erano state realizzate sopraelevazioni e i rifacimenti posteriori che ne avevano mutato interamente l’aspetto, salvo pochissime costruzioni superstiti.
Non ostante la sua ampiezza, scriveva Savorini nel 1934, il Corso aveva ancora un aspetto meschino, specialmente per la brutta pavimentazione a ciottoli, senza marciapiedi, con carreggiata concava e cunetta centrale e per le abitudini ancora troppo paesane degli abitanti. Nei giorni di mercato si legavano i somieri agli anelli infissi nelle case e i contadini sostavano nelle osterie, che stavano nei bassi ora occupati da eleganti negozi. Una fila di angusti portichetti fiancheggiava inoltre tanto il Corso S. Giorgio che quello di Porta Reale: comodo ricetto al commercio ambulante e riparo contro le intemperie alle genti del contado nei giorni di fiera. Date le condizioni tutt'altro che lodevoli della nettezza urbana e la nessuna cura di manutenzione dei fabbricati, quei portici a lungo andare avevano acquistato un aspetto “indecentissimo”, per cui Melchiorre Delfico, dopo il 1823, anno in cui era tornato definitivamente nella città natale, aveva pensatodi abbatterli. Suo principale merito era stato l'ampliamento della via principale, il Corso, che attraversava per quasi un chilometro la città e che, almeno per qualche tratto, avrebbe dovuto portare il suo nome. Melchiorre Delfico lo aveva liberato dei luridi portichetti che lo fiancheggiavano, ingombrandolo, e per compiere con sollecitudine quest'opera di risanamento e di decoro pubblico era giunto al punto di concorrervi finanziariamente, comprando alcune case e sostenendone a sue spese le opere di arretramento. Teramo era già uscita da qualche tempo dal suo asserragliamento medioevale e Delfico aveva voluto dare più ampio respiro alle sue piazze e alle sue vie. Aveva iniziato così quell'opera di ampliamento del Corso (il più maestoso d’ Abruzzo), poicompiuta dopo un secolo dalla sua morte, con l’abbattimento del superstite porticato basso, ultimo residuo, nel bel mezzo della città, dell'angustia e della meschinità medioevale. Savorini auspicava che i teramani potessero, veder passare per il Corso, ampliato ed abbellito, la gloria d'Italia e il trionfo di Roma. Ma anche nella “terra vecchia” erano intervenute delle modifiche: si era manifestato il bisogno di uscire dalle strettezze medioevali con l’abbattere anzitutto le porte interne le quali erano servite di seconda e terza linea di difesa. Nel 1817 era stato raddrizzato ed allargato il Trivio tra le case Urbani e Savini restando così abbattute le ultime tracce dell'antica porta interna di S. Francesco, che serviva ad asserragliare l’attuale largo di S. Antonio. Naturale collegamento tra la terra vecchia e la terra nova era rimasta la Piazza Maggiore, detta volgarmente piazza di sopra, e per vario tempo anche Piazza dell’Olmo, per un olmo che stava davanti al palazzo già Rozzi e così grande che tre persone con le loro braccia non avrebbero potuto cingerlo.
Un certo risveglio edilizio si era avuto ai principi dell’Ottocento, sotto il governo borbonico, per opera di alcuni buoni Intendenti, come si chiamavano allora i Prefetti del Regno.Si erano avute la Casina della Società Economica del 1826, la sistemazione della circonvallazione sud, con le alte e robuste scarpate che la sostenevano, il riempimento del fossato fuori Porta S. Giorgio, il viale a principio della strada per Ascoli iniziato nel 1826. Poco dopo era stato inaugurato nel 1836 il Palazzo della Intendenza, poi Prefettura, era stato veniva sopvraelevato nel 1849 e sistemato in tutta la facciata il Real Collegio, due edifici che avevano cominciato a dare aria cittadina al Corso di Teramo.Anche qualche strada secondaria era andata nobilitandosi con nuove costruzioni, ma con qualche incongruenza, tanto che, ricordava Savorini, Re Ferdinando II, dopo aver visitato Teramo nel luglio 1832, ricordandosi dell'erigendo ponte sull'arido Vezzola, dell'aspetto umile delle case cittadine e del Palazzo Vescovile, il solo che avesse allora un portone alto: “Agge viste: fiume senza puonte, e puonte senza fiume, case senza purtuone e purtuone senza case.”
Savorini ascriveva a questa non regolata crescita di Teramo la perdita delle caratteristiche impronte medioevali. Il piccone demolitore aveva infierito implacabilmente contro i vecchi edifici, aveva abbattuto le porte per le quali s'entrava in città, aveva diroccato le torri gentilizie, aveva spezzato gli stemmi, aveva asportato perfino le artistiche pietre tombali delle chiese, aveva distrutto i pomerii, aveva “agguagliato” al suolo il doppio giro di mura e i bastioni dei quali restava l'ultimo misero avanzo, a Porta Reale, a testimoniare malinconicamente di una bellezza per sempre scomparsa. Teramo, la città regia, si era tolta tolse la corona e gli altri segni dell’antica nobiltà, concludeva Savorini. Non poteva prevedere che il piccone ben altri danni avrebbe arrecato all’antica nobiltà di Teramo, abbattendo anche prestigiosi edifici che egli aveva visto e vedeva nascere davanti ai propri occhi, non immaginando quanto breve sarebbe stata la loro vita. E il piccone a Teramo è ancora attivo, instancabile…
Elso Simone Serpentini