Con buona pace delle anime belle per le quali questa Babele in cui siamo immersi è un arricchimento culturale e sociale, io trovo che la quantità di suoni in cui incappiamo durante il nostro girovagare per le vie della città, sia un guazzabuglio che neanche le più sofisticate avanguardie jazz avrebbero saputo inventare. Mi colpisce ogni giorno di più, questa colonna sonora che accompagna i nostri passi: un susseguirsi di idiomi che stanno sovrastando le nostre lingue (italiano e dialetto, dico) e che non c’entrano nulla con noi. Ci ritroviamo surclassati, ogni giorno di più, da una mescolanza di parlate a noi sconosciute, che creano, tra gli innumerevoli grattacapi, il difetto di renderci estranei sempre più e di fare dell’ambiente in cui viviamo una inaccogliente, confusa, respingente realtà.
Con buona pace delle anime belle per le quali è giunto il momento di superare le barriere che ci dividono (ma dobbiamo farlo solo noi?) per proiettarci invece in un idilliaco mondo multicolore, multisonoro, multireligioso e multitutto, io trovo una sconfitta (altroché) il lento e progressivo scomparire dell’italiano dalle strade, dai supermercati e dalle nostre orecchie, per non parlare del bellissimo dialetto che per secoli ha forgiato luoghi, persone e comunità. Erano gli strumenti che ci interpretavano e ci rappresentavano, sapendo che l’interlocutore si trovava sulla nostra stessa lunghezza d’onda.
Con buona pace delle anime belle che intendono il progresso sociale e umano come il superamento delle barriere e delle differenze, io credo che queste invece siano una ricchezza da perseguire e difendere per un vero reciproco progresso; e perciò consentire ora l’indifferenza verso la nostra storia, anche urlando in arabo o in una lingua africana, consente di sdoganare, come fa la goccia, il diritto all’arroganza e di far terra bruciata dei luoghi dove ci si trova, tra l’altro casualmente..
Con buona pace delle anime belle che presentano questa città come un modello di integrazione e inclusione, io le invito ad aprire gli occhi e guardare al modello di disintegrazione ed esclusione che hanno creato. Facciano attenzione, queste anime belle, alle condizioni in cui vivono costoro, stazionanti qui con una idea malata dell’accoglienza secondo la quale basta un piatto di minestra, un tetto dove dormire e un telefonino, per sentirsi solidali. Quando permetto a qualcuno di entrare a casa mia, lo faccio aprendo non solo fisicamente la porta ma spalancando anche la mia disponibilità, la voglia di incontro, il piacere dello stare insieme. E mi attendo che la cosa sia reciproca. Qui invece, vedo che chi entra nella casa che è la nostra città, lo fa ignorando le principali regole dell’ospitalità, mancando di rispetto a chi apre le porte, per rincorrere una realtà a noi estranea. E non sono nemmeno invitati...
AMLETO

