
Nel cortile del Liceo Artistico di Teramo c’è uno spettacolo indecoroso: una catasta di cavalletti abbandonati, scheggiati, semidistrutti. Un ammasso di legno e ruggine che racconta, meglio di mille discorsi, lo stato dell’istruzione artistica in Italia. Non è solo incuria: è il simbolo materiale del disinteresse verso la formazione estetica, quella vera, fatta di mani sporche di colore e non di slide proiettate in un’aula fredda.
Che in una scuola d’arte si lascino marcire i suoi stessi strumenti è un paradosso da manuale. Quei cavalletti non sono semplici oggetti, ma ciò che reggeva – letteralmente – le ambizioni creative degli studenti. Buttarli lì, come spazzatura, significa dire ai ragazzi che ciò che fanno non conta, che la loro fatica non ha valore, che l’arte è un passatempo da compatire.
È facile parlare di “valorizzare la cultura” nelle conferenze stampa; più difficile è sostituire un cavalletto, sistemare un laboratorio, dare dignità materiale alla parola “artistico”. Il mucchio nel cortile non è solo disordine: è una metafora perfetta dell’Italia che predica bellezza e pratica abbandono.

