Per Vincenzo Cimini “Giacobbo” non era una semplice maschera e non era solo una maschera, era un personaggio reale, con il quale parlava, dialogava, con il quale si confrontava. Dopo aver completato il trucco, usando anche tinta di carbone, il Vincenzo Cimini che era entrato non c’era più e al suo posto usciva Giacobbo. I suoi sembravano monologhi, ma erano dialoghi, perché Giacobbo dialogava sempre con qualcuno (personaggi immaginari ma quanto mai reali, anche se non apparivano, ma venivano solo evocati) parlando la sua lingua (era una lingua più che un dialetto), che era già arcaica e desueta quando lui la rievocava negli anni 90 del secolo scorso – figuriamoci quanto lo è diventata di più dopo 34 anni. In questo suo monologo-dialogo del 1990 a Verde Tv egli parla con Torquato (Turqua), che invita a non bagnarsi sotto la pioggia per non prendere un raffreddore (n’afflezzejòne) e parlando con lui di una bicicletta (la bececlàtte) da lui abbandonata partendo per la guerra insieme con Bramuccio (Bramìcce), lasciandola a fronteggiare un’altra guerra, nelle mani della marmaglia che l’aveva ridotta in pessime condizioni (Mo’ la pijàve ìne, mo’ la pijàve n’adre, lu campanille n’avèje maje requie). La camera d’aria della ruota davanti era diventata come una “rota de saggìcce” e la pompa inservibile, tanto da essere costretti a chiederne una in prestito a Lesandre lu scarpare, che ne era assai geloso. Così, alla fine, del cerchione non si era fatto altro uso che giocarci “a cèrcine”. Impareggiabile Giacobbo, che racconta a modo suo i grandi temi internazionali, per ciò che è riuscito a capirne, riportandoli sempre alla misura del suo angusto mondo contadino.