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“The young Gatti”. Nella trasmissione televisiva “7te” - sì, proprio quella in cui io e Antonio D’Amore facevamo domande che oggi ci farebbero querelare a piè pari - ci capitò tra le mani il giovane Paolo Gatti. Anzi, ci capitò tra le grinfie. All’epoca era un giovanissimo uomo politico: fresco, motivato, immacolato. Insomma, una specie ormai rarissima. Decidemmo di partire con una domanda leggera, di quelle da dopocena: “In politica, i figli sono davvero migliori dei padri?” Una cosina semplice semplice, da sociologia spicciola. Gatti, con l’aria di chi si sta chiedendo se non fosse stato meglio andare a pesca, rispose con il solito equilibrio da promessa della politica: riconobbe il valore dei “padri”, ma ricordò che i “figli” devono guadagnarsi la fiducia sul campo. Il che è vero. Peccato che il campo, nella politica locale, somigli spesso a un campo minato. Passammo poi al capitolo amministrazione. Lo attaccammo su quello che all’epoca era il tormentone del giorno: l’eccesso di conferenze stampa. Un vizio antico che oggi si è evoluto in “eccesso di selfie” e “inaugurazione di qualunque oggetto dotato di una superficie piana. Gli insinuammo che forse, e dico forse, tutta quella comunicazione servisse più a farsi vedere che a far vedere.
Lui, serafico, replicò che la trasparenza passa dalla presenza pubblica: “Un amministratore ha il dovere di spiegare ciò che fa. Il silenzio non è mai garanzia di buona gestione.” Che detto così sembra un proverbio zen, ma in realtà era una risposta politica molto astuta. Poi arrivò il momento clou: Fernando Cantagalli. Figura storica, discussa, instancabile, un po’ padre, un po’ allenatore, un po’ allevatore di giovani talenti politici. Non potevo farmi sfuggire l’occasione e chiesi al giovane Gatti: “A che punto è questo allevamento?” Gatti sorrise come chi ha capito che la trappola è scattata, ma rifiuta comunque di farsi catturare. Riconobbe il ruolo di Cantagalli come guida, sì… ma prese subito le distanze dall’idea che la politica si faccia con la pappa e il recinto per vitelli. Non lo disse apertamente, ma lo pensò di sicuro: “La maturazione politica non si alleva come si fa con gli animali da stalla. Si cresce, si sbaglia, si impara. E soprattutto si sopravvive.” Riascoltando oggi quella vecchia intervista, è difficile non sorridere. È rivelatrice, sì. Di cosa, esattamente? Beh, questo lasciamolo dire a chi avrà la pazienza (e il coraggio) di riascoltarla adesso.
ELSO SIMONE SERPENTINI