Non è affatto certo che le misure restrittive adottate dal governo italiano abbiano contribuito ad arrestare la diffusione ormai estesissima ed incontrollata del coronavirus, mentre appare ormai incontestabile la gravissima compressione dei diritti di libertà dei cittadini i quali, benché nella maggioranza abbiano rispettato con spirito di sacrificio dette misure, a volte persino illogiche e contraddittorie, sono stati oggetto di un vero e proprio processo di colpevolizzazione di massa, sfociato nell’applicazione massiccia e a volte arbitraria, di salate sanzioni pecuniarie e severe denunzie penali (all’inizio il reato di cui all’art. 650 c.p., poi quello di cui all’art. 260 del R.G. 27 luglio 1934 n. 1265).
Si pensi, ad esempio , all’assurda sanzione irrogata ad un avvocato pescarese, “colpevole” secondo la Guardia di Finanza, d’essersi trattenuto in studio in orario quasi notturno, quindi d’aver lavorato troppo?
E già, perché i professionisti e tutti gli imprenditori e lavoratori autonomi la cui attività non è stata sospesa, nonostante le crescenti difficoltà determinate dall’attuale Stato di Polizia, si ostinano addirittura a voler lavorare.
Ma, costretti a prestare servizio in condizioni d’estremo pericolo e inaccettabile disagio, sono prima di tutto, gli operatori penitenziari, chiamati a gestire, senza adeguati mezzi e nell’impossibilità di adottare misure di sicurezza minime, una situazione a dir poco esplosiva, alla quale, nonostante il recente appello del Papa che ha espressamente denunciato la situazione di grave sovraffollamento, il Governo non ha inteso porre adeguato rimedio.
Una condotta omissiva gravemente irresponsabile che rischia ora di porre in pericolo, non solo la salute dei cittadini carcerati, una parte rilevante dei quali costituita da imputati in attesa di giudizio, quindi presunti innocenti, ma, in generale, di tutti gli operatori penitenziari.
Tuttavia, per la maggioranza che sostiene l’attuale governo che, con il blocco della prescrizione dei reati e la riforma sulle intercettazioni, ha trasformato i cittadini italiani in sorvegliati speciali eternamente imputati, le parole “amnistia e indulto” rappresentano un vero tabù, ma con alcune rilevanti eccezioni quando a commettere i reati sono i membri della casta.
Difatti, è sufficiente leggere il testo dell’emendamento (cosiddetto scudo penale) presentato al “decreto cura Italia” dal capogruppo del P.D. al Senato Stefano Marcucci, per apprendere del tentativo di limitare ingiustamente la responsabilità civile e penale di chi ha gestito la sanità durante l’emergenza epidemiologica, una norma che, se approvata, potrebbe “giustificare” il massacro di medici ed infermieri, ai quali non sono stati forniti neppure i dispositivi di protezione minima, così facendoli ammalare.
Un emendamento che, se non ritirato con ignominia, verrebbe a realizzare una sostanziale e ingiustificata “abolitio criminis” dell’epidemia colposa, grave reato la cui configurabilità sarebbe limitata alla sola solo ipotesi di colpa grave, consistente, come si legge nello sfacciato testo normativo, “nella macroscopica e ingiustificata violazione dei principi basilari che regolano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali predisposti per fronteggiare la situazione in essere”.
Quindi, mentre i cittadini detenuti nelle carceri, una parte rilevante dei quali, si ripete, presunti innocenti secondo una Costituzione non ancora abrogata ma sistematicamente violata, sono esposti al rilevante rischio di morire vittime del contagio da coronavirus, i possibili responsabili di quella che ha assunto ormai i connotati di una strage, verrebbero a godere della privilegiata protezione ad opera di una norma di dubbia legittimità costituzionale, una parziale “abolitio criminis” che si presenta come tentata “amnistia di casta”.
La legge è uguale (quasi) per tutti.
Vincenzo di Nanna