Ognuno di noi è consapevole di ciò che sta accadendo in Europa, negli Stati Uniti, in Asia. Ma sono pochi i fari puntati verso alcune aree dell’America Latina, dell’Africa e del Medioriente. Qui il coronavirus si aggiungerà ad altri problemi strutturali esistenti. E sarà una strage. Anzi la strage nelle favelas brasiliane è già iniziata nel più totale silenzio. Siamo già alle fosse comuni. Come il suo compare Trump in America anche il militare JairBolsonaro non si smentisce, e dà oggi il benservito al suo (ormai ex) ministro della Sanità, per sostituirlo con un altro, molto più incline anche lui a riaprire tutto e ricominciare a vivere normalmente, iniziando dalle scuole. Lo sappiamo: spessissimo lo sviluppo degli scenari nelle faccende umane e del mondo è imprevedibile. Nelle questioni sociali ancora di più. E in epoca di pandemia quelle che in un primo momento erano opinioni, “meglio stare a casa”, “no, meglio uscire”, sono diventate posizioni politiche. Ma in Brasile si è arrivati addirittura al paradosso. Sulla pelle della gente.I brasiliani ora sono disorientati. La maggioranza ha votato Bolsonaro, ma è terrorizzata dal virus, al punto che è tutto fermo anche nei piccoli villaggi dove di contagiati non c’è quasi traccia. Il presidente, avversato da tutti, va addirittura contro le amministrazioni locali che vorrebbero tutto chiuso. Rio de Janeiro è blindata al punto che sono riusciti persino a bloccare le favelas dove sono tutti rifugiati terrorizzati, nonostante #iorestoacasa qui sia quasi una condanna a morte, con uno spazio vitale di due metri quadrati a individuo nelle abitazioni (chiamiamole così). Nello stesso tempo Rete Globo sta dando voce alle lamentele di senzatetto, presi per la strada e relegati in hotel popolari di infima categoria, privi di servizi decenti. Nel frattempo c’è anche chi protesta chiuso in casa, dalle finestre. Chiaramente Bolsonaro non lo fa per la “libertà”, bensì più probabilmente per il liberismo. La sua sbrigativa, terrificante valutazione di alcune settimane fa – “Ci saranno 50mila morti e finisce lì” – è inaccettabile, anche se nel paese ogni anno in effetti ci sono 50mila morti solo tra i bambini, e nessuno ha mai protestato più di tanto. Visto che “tanto” si tratta di gente proveniente dalle favelas. O dall’Amazonas. Dove, a Manaus, ci sono stati 4mila morti nell’ultima settimana, tra cui diversi missionari cattolici italiani. Tutto questo richiederebbe una seria rivalutazione dei paradigmi di riferimento. D’altra parte l’isolamento forzato si sta rivelando anche un’opportunità di riflessione profonda per tutti, sul significato di quello che stiamo realmente facendo con la nostra stessa umanità e col pianeta Terra. Difficile avere un’idea di quali saranno i reali sviluppi nel paese verde oro. Può sembrare paradossale, ma in un paese poverissimo, dove non lavorare per un giorno significa per molte persone non poter mangiare per un giorno, le restrizioni agli spostamenti possono avere conseguenze immediate gravissime. L’economia del Brasile, come quella di molti altri paesi latino americani e non solo, si basa in gran parte sugli scambi commerciali , molti “in nero”: tolti i lavoratori del settore agricolo, tra il 30 e il 90 per cento dei lavoratori si mantiene grazie al commercio informale; questo settore contribuisce a più del 20/30 per cento del PIL di molti paesi latini. In periodi senza turismo anche di più. I paesi che hanno economie del genere non hanno strumenti di welfare (come la cassa integrazione o i sussidi di disoccupazione in Italia) per sostenere economicamente la popolazione durante una sospensione degli scambi commerciali.Per molte persone che abitano in paesi poveri, insomma, la scelta tra restare in casa attenendosi alle misure restrittive e uscire per lavorare non è una vera scelta. E per chi vive in grandi baraccopoli, con un limitato accesso all’acqua corrente, è molto difficile rispettare le regole di distanziamento sociale e di igiene. Questo è ovviamente un problema presente anche nei paesi occidentali, per le fasce più povere e deboli della popolazione. Ma nei paesi più sviluppati esistono, almeno in teoria, gli strumenti per raggiungere e aiutare queste categorie: nei paesi poveri spesso questa non è una possibilità nemmeno a livello teorico.Anche far rispettare le misure restrittive è complicato. I controlli delle forze dell’ordine sono limitati perché non c’è abbastanza personale e, quando avvengono, sono spesso usati metodi brutali. La polizia pesta chi viola le restrizioni . Secondo i gruppi di difesa dei diritti umani, a San Paolo almeno 38 persone sono state uccise dai soldati impegnati nel far rispettare le restrizioni.L’impossibilità di rispettare le restrizioni per le persone in maggiore difficoltà ha poi un’altra grave conseguenza: una maggiore diffusione del virus. Anche in Italia, negli altri paesi europei e negli Stati Uniti ci si preoccupa delle conseguenze economiche delle chiusure delle attività commerciali e delle limitazioni agli spostamenti, ma nei paesi ricchi stare in casa ha uno scopo preciso: abbattere la cosiddetta curva dei contagi quel tanto che basta per permettere al sistema sanitario di occuparsi dei malati. Gran parte dei paesi in via di sviluppo stanno imitando i paesi più ricchi introducendo le restrizioni agli spostamenti, ma non possono seguire del tutto la loro strategia: i loro sistemi sanitari non ne hanno le capacità. Non ci sono ventilatori polmonari, e se anche i paesi più ricchi regalassero migliaia di ventilatori ai paesi più poveri, il problema non sarebbe risolto: per usare queste macchine servono medici con una formazione adeguata. E in generale nei paesi poveri mancano medici.Per queste ragioni, sono sempre di più gli economisti e gli esperti di politica internazionale che sostengono che i governi dei paesi in via di sviluppo non dovrebbero imitare le strategie dei paesi ricchi per affrontare la pandemia di COVID-19. Le restrizioni sono consigliate dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), ma è una raccomandazione che non tiene conto delle situazioni socio-economiche dei singoli paesi.Una linea di pensiero è che i paesi più poveri dovrebbero imporre dei coprifuoco, piuttosto che dei divieti totali sugli spostamenti. Come stanno facendo in Africa. L’obiettivo è comunque quello di limitare la diffusione dei contagi: è l’unico modo di proteggere la popolazione in assenza di sistemi sanitari in grado di curarla. Prendere tempo resta la cosa da fare: non nell’attesa che gli ospedali si attrezzino, come nei paesi con maggiori possibilità, ma nell’attesa che quei paesi sviluppino cure migliori e che le producano in grande quantità.La cosa migliore, secondo gli esperti, sarebbero comunque dei grossi aiuti finanziari da parte dei paesi ricchi. Finora l’iniziativa più rilevante in questo senso è stata la decisione dei membri del G20 (19 tra i paesi più industrializzati del mondo e l’Unione Europea) di sospendere temporaneamente il pagamento del debito dei paesi più poveri, dal primo maggio alla fine del 2020. Ma non sarà sufficiente: servono fondi per l’acquisto di mascherine e altri dispositivi di protezione per i medici, strumenti per organizzare la quarantena per i malati, medicinali e vaccini, quando ci saranno, oltre a risorse alimentari per chi sarà più colpito dalla crisi economica.In questo momento di difficoltà generale è difficile immaginare che i paesi ricchi possano aiutare quelli in via di sviluppo meglio che in passato. In questa situazione però sarebbe molto importante anche per i loro interessi: se il coronavirus diventerà endemico nei paesi che non saranno in grado di eradicarlo, potrebbe continuare a circolare nel mondo più a lungo. Basterà questo egoismo per convincerci ad alzare una mano per aiutarli ?
Leo Nodari