×

Avviso

Non ci sono cétégorie

295820693_775546450161810_3743120448434191375_n.jpg

 

LECTUS 2022 / Su Le ceneri di Gramsci

«Do I contradict myself?
Very well then I contradict myself,
(I am large, I contain multitudes.)»

WALT WHITMAN (1819-1892)

Non sono qui a scrivere il risaputo, lo scontato, il chiacchierato, perché scriverò, criticamente, cose che, almeno in Italia, non ha avuto mai nessuno il coraggio di dire perché viviamo dal 2 novembre del 1975 in una sorta di infinito processo di beatificazione di Pier Paolo Pasolini, che a me non interessa, posizione che rigetto totalmente, che ritengo sia offensiva dell’uomo e del poeta, del dolore e dell’assassinio di un grandissimo poeta: l’artista, quando è autentico, assume in sé sempre un rischio, che è quello dell’incomprensione del vivere e del morire.

Insomma, non sono qui a fare la complottistica e stolida eco di chi ancora sbava sul suo cadavere: tutto questo non interessa la critica letteraria. Pasolini ha onorato la Vita nell'opera: questo interessa la critica letteraria ed è solo questo a renderlo immortale. Pasolini era aderente alla Vita, che non è altro che quella serie di azioni imperfette, scoordinate e perciò sempre rischiose che riguardano il vivere: questo interessa l'uomo e il critico.

Quindi chi, qui, si aspettasse di leggerne l'ennesimo elogio funebre, ne rimarrà deluso ed è consigliabile allora che termini ora la sua lettura perché sto scrivendo di un uomo ancora vivo.

Nell'opera di uno scrittore, quando ci fosse, è senza dubbio la poesia la parte più importante, la più rilevante; cioè ciò che più di tutta la sua produzione ne denuncia l’importanza.

Da questo concetto, oggi e per altri cento anni ancora, deve ripartire una sana critica sull'opera di Pier Paolo Pasolini, ché sia totalmente scevra da pasolinismo; indagine che non può che ripartire allora da Le Ceneri di Gramsci, che, per metafora, rappresenta le ceneri del poeta stesso e la sua resa, dal quale tenta una faticosa, drammatica, incompiuta  rinascita.

In questo poemetto, che lo stesso poeta data 1954, già troviamo espressa pienamente quella che caratterizzerà la poetica pasoliniana (Ragazzi di vita uscirà solo nel ’55, quindi Pasolini nel momento della composizione del poemetto è in procinto di raggiungere il pieno successo letterario staccandosi anche lui da una povertà che ha conosciuto personalmente, da “diseredato”, nei sui primi anni romani): Pier Paolo, all’atto della stesura del testo, è già da quattro anni a Roma – dove è arrivato con la madre il 28 gennaio 1950, letteralmente scappati di casa, da Casarsa, e dallo scandalo all’alba di quel giorno – e ne è innamoratissimo; da qui inizia la sua caratterizzante epica romana, di cui descrive luoghi e genti, che attraversa tutti, indistintamente, nella delizia e nella croce di una esistenza difficile, mai accettata pienamente soprattutto per via della sua condizione di omosessuale – conflitto tutto borghese: per borghese si deve qui intendere non il benessere borghese, cui tutti lecitamente aspiriamo, ma alla sua mascheratura, alla maschera borghese, perbenista, retorica, ipocrita, che allontana dal Vero (la Verità è altra cosa e di ben altri luoghi rispetto all'Arte, questione di cui, qui, dunque non ci è dato di trattare.)

Ne Le Ceneri di Gramsci, si diceva, il poeta denuncia la sua resa al capitalismo e al tradimento e al conseguente fallimento – nel suo proprio dato storico – del marxismo, anticipando addirittura i temi del febbraio 1956 in seno al XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, dove Nikita Chruščëv dal Cremlino denuncerà il disastro stalinista, e, malgrado questa speranzosa svolta, dell’arrivo il 4 novembre dello stesso anno dei carri armati dell’Armata Rossa a Budapest, fatto che provocò la rinuncia da parte di numerosi intellettuali italiani della tessera del Partito Comunista Italiano – Pasolini era stato già espulso dal partito nel 1949 per i fatti di Ramuscello, per cui riparò con la madre a Roma nel gennaio del ’50 –, che appoggiò, vergognosamente!, l’invasione dell’Ungheria che aveva lo scopo di sopprimere la rivolta antisovietica già armatasi nel paese magiaro.

Ma i motivi reali di questa resa sono di molto anteriori e risalgono al Secondo conflitto mondiale.

Nel 1942 la famiglia Pasolini decide di sfollare in Friuli, prima a Casarsa e poi a Versuta, dove Pier Paolo si estranea totalmente dagli avvenimenti storici dedicandosi alla letteratura e all’insegnamento. Difatti Pasolini non ha partecipato in nessun modo alla Resistenza Italiana, a differenza del fratello Guido che, più giovane di lui, era del ‘25, si arruola subito nelle Brigate Osoppo, formazione partigiana di ispirazione cattolica e socialista, per poi trovare la morte, barbaramente assassinato da partigiani italiani comunisti appartenenti alle Brigate Garibaldi, il 12 febbraio 1945, all’età di 19 anni, in quello che sarà in seguito ricordato come l’eccidio di Porzûs: Guido Pasolini e altri 16 suoi compagni furono uccisi da partigiani italiani comunisti perché, come membri delle Brigate Osoppo, si rifiutarono di tradire il tricolore passando per la stella rossa di Tito – i cosiddetti e famigerati titini – e di essere così assorbiti dalle truppe slovene, piano che mirava ad allargare il fronte sovietico verso ovest annettendo anche zone del Friuli a quella che sarebbe stata la futura Jugoslavia. «I presidi garibaldini fanno di tutto per demoralizzarci e indurci a togliere le mostrine tricolore. A Memino un commissario garibaldino mi punta sulla fronte la pistola perché gli ho gridato in faccia che non ha idea di che cosa significhi essere “Uomini liberi”, e che ragionava come un federale fascista. Infatti nelle file garibaldine si è “liberi” di dire bene del comunismo. […] A fronte alta dichiariamo di essere italiani e di combattere per la bandiera italiana, non per lo “straccio” russo.» scrive Guido al fratello Pier Paolo in una accorata lettera del 27 novembre 1944, nella quale chiedeva che il fratello scrivesse di questo, che informasse la gente di quello che stava succedendo in seno alla Resistenza Italiana sul fronte sloveno; ma il poeta di quanto lo informava il fratello non scrisse nulla disattendendo la denuncia del partigiano”Ermes” – nome di battaglia di Guidalberto Pasolini –, probabilmente perché troppo preso dalle attività dell'artificiale Academiuta di lenga furlana, di dubbia urgenza scientifica ed estetica considerati i tempi e il fatto che Pasolini non era affatto un parlante in friulano; che per il fratello si limitò a scriverne l’elogio funebre ed altri testi in memoria.

Quindi si può affermare che i dubbi del poeta sul marxismo – espressi appunto in questo granitico poemetto –, che poi lo porteranno ad avvicinarsi alla lettura del Vangelo – ma sempre inteso come opera intellettuale: Pasolini non era affatto cattolico e tantomeno cristiano come alcuni, Sanguineti in testa, hanno tentato di affermare, perché la tensione che lo ha portato a certi temi era solo di natura estetica – e alla sua visione miracolosa del mondo, provengono invero da traumi biografici, da feroci rimorsi di coscienza. Insomma, Pasolini era un comunista abortito alla nascita. O, meglio, probabilmente, a modo suo – e qui ha senz'altro ragione Sanguineti –, era marxista ma, sicuramente, non è mai stato comunista perché troppo libero e prigioniero di se stesso per lasciarsi legare dalle ulteriori pastoie dell’ortodossia ideologica filosovietica, che tra l’altro non lo ha mai accettato, se non strumentalmente nella più comoda, addomesticata, ferma forma del de cuius; ma, soprattutto, non era comunista perché sono questi gli assassini di suo fratello – del suo unico fratello – Guido, proprio quelli dello «“straccio” russo.», che glielo uccisero, straziandolo, a colpi di piccone.

Pier Paolo Pasolini è certamente l’artista italiano più conosciuto per sentito dire che per averne letto l’opera – e ancora in meno hanno letto le sue poesie –; ma è anche il più controverso, quello più contraddittorio – persino più di Foscolo, amato da Mazzini e adottato a monito risorgimentale; Mazzini che, al contrario, aveva in odio Leopardi, che portava a esempio opposto, cioè come antitesi dei moti risorgimentali, vitalistici, di piena azione, a parer suo –, parte integrante della società dei consumi che pure ferocemente criticava, quindi poeta organico che in questo suo poemetto si mette a nudo come è rarissimo riscontrare in poesia, dove sceglie la Vita all’ideologia e dove non versa una lacrima sulle “ceneri” del comunismo – e ricordiamo che siamo nel 1954 quando licenzia il poemetto Le ceneri di Gramsci –, firmando con la raccolta eponima del 1957 l’opera poetica più importante del Secondo ‘900 italiano, che, insieme a L’Allegria di Ungaretti, nella sua definitiva edizione del 1931 – tutto ha inizio per il poeta di Alessandria d’Egitto con Il porto sepolto del ’16 –, marca il vertice della nostra lirica novecentesca e si staglia nel firmamento della poesia di tutti i tempi, non a caso inserito nella seminale antologia City Lights Pocket Poets Anthology da Lawrence Ferlinghetti, City Lights Books, San Francisco, 1995, dove il poeta italoamericano sceglie di antologizzare Dove vai per le strade di Roma e Sesso, consolazione della miseria!, entrambe tratte dalla raccolta La religione del mio tempo, 1961 – pubblicazione internazionale di poesia dove è l’unico autore italiano presente in antologia insieme ad Antonio Porta.

È con quest’opera, e più specificatamente con il poemetto Le ceneri di Gramsci, che Pier Paolo Pasolini diventa PASOLINI, che raggiunge quel Vero che è del poeta autentico, cioè si fa Vero ma mai Verità; è qui che nasce il Pasolini più alto e che più amiamo, che più di altri è rimasto esteticamente in stretto, carnale contatto con la realtà perché sapeva, evidentemente, che è quando si manca di realtà che si diventa incomprensibili.

La vera memoria culturale è artistica di Pier Paolo Pasolini è salva solo nella sua poesia, perché è lì che resta vivo e che, quindi, ci è più prezioso; perché è lì, nella sua inconsumabile vivezza, che ci diventa indispensabile, dopo cent’anni e oltre.

MASSIMO RIDOLFI