La poesia non deve essere studiata sulle antologie ma attraverso la singola messa in opera del poeta, vale a dire pubblicazione per pubblicazione, libro per libro, filologicamente. Ma non basta, perché anche il confronto con la tradizione letteraria deve essere mediata nel giudizio per contestualizzare l'opera e lo scrivere qui e ora: se ci si trovasse innanzi a l’opera di un poeta autentico, certamente ci si scoprirà innanzi a dei testi frutto di stratificazione, ma la metrica non c’entra, e ben oltre deve tentare il discorso critico, a meno che non ci si accontenti di fare solo dell’aruspicinaletteraria, dove si finirebbe per trovare maggiormente petrarcheschi o montaliani, e qualche sparuto ungarettiano a funzione di superstite, e qualche pasoliniano per sentito dire, e qualche tardo epigono sanguinetiano, che di seguaci non è ha mai né voluti né cercati.
L'antologia va vista solo come banale elencazione di nomi; come elenco telefonico dal quale ogni tanto pescare un nome e chiamare, se mai rispondesse in poesia. Quindi nulla da prendere sul serio. Per questo non deve essere intesa assolutamente come testo base per lo studio di un periodo della storia dell'arte letteraria perché sono strumenti assolutamente imprecisi e, in Italia, sempre marcati da interessi editoriali o banali rapporti amicali. Sempre!Nessun periodo escluso del Nostro Novecento. E sempre ha rappresentato e rappresenta una presunzione critica intollerabile, e spesso anche disonesta. Il critico, in scienza e coscienza, libero, può solo azzardarsi all'analisi dell'opera del singolo autore. Oltre non è seriamente possibile esprimersi, ammenoché non si è abituati a ingurgitare minestroni immangiabili che sanno un po' di tutto e un po' di niente. L'antologia che pretende la descrizione di un canone è il fast-food della critica, vale a dire che sta all'arte della critica come la mensa scolastica alla buona cucina: è bassa letteratura di consumo, pubblicistica da saponetta.
Quello dello scrittore, sia chiaro una volta per tutte, è un lavoro che può svolgersi concretamente solo nella più assoluta solitudine, ed è sempre il lavoro di un ricercatore, di uno studioso: quando si scrive si è soli perché bisogna essere soli per cercare e sperare il ritrovamento di una via di comunicazione che riporti lo scrittore (che è un artista di lettere, e sia chiaro una volta per tutte anche questo) al dato oggettivo del vivere, cioè fuori dalla stanza dove si è rinchiuso a scrivere! Per questo non può esistere nessuna corrente letteraria e men che meno un movimento, o altri accrocchi, per costringere tutto dentro un discorso collettivo, invenzioni tutte della cattiva critica che per forza deve catalogare e giustificare (a volte per pura convenienza editoriale) la presenzanel mondo di amici e parenti: Francesco Napoli, da Napoli, curatore di Poeti italiani nati negli anni ’60 (Interno Poesia 2024), pare, perché da Napoli, essersi accorto, forse per liquida intercessione di Gennarijellefaccia gialla, che si ritrovano tra le famiglie del Suditalia, tradizionalmente più numerose rispetto a quelle dell'Alta Italia, nati negli anni '60 giusto 4 poeti in croce, perché pure lui non sfugge alla calamità editoriale "milanesana": qui, a parte Gianfranco Lauretano, di cui so i viaggi per redigerel’Almanacco di Raffaelli, nessuno pare si sia mai accorto compiutamente che nel Suditalia anche si scrive poesia, e molto superiore al circoletto di nebbiosi sfigati (cane o non cane) che ancora ammorba la nostra poesia, che ancora ci annoia l'anima,fino all’ammollamentovertebrale. E questi critici (Galaverni: Galaverno! Perdio! La maturità l'hai presa: basta con il compitino in classe per fare contenti professori, parenti e amici. E la tua educazione da collegiale fa più danni di una sana, vissuta, tutta vissuta, maleducazione. Vivaddio!), che giustificano l'ingiustificabile, che riescono (beati loro) a recensire solo grandi poeti, sempre e solo quelli presenti nella rubrica del proprio telefoninoinoino, quelli che stanno tramutando i festival di poesia (già orribili, caro Bertoni, caro Villalta) in sagre dove invitare amici a nutrirsi di libri porchetta e birra - e alla sera si canta pure.
Gianfranco (Lauretano) qui non c'entra nulla la distinzione formale tra prosa e poesia, perché questi neanche in prosa sanno scrivere. Qui si sta raccogliendo solo il frutto di un cattivo studio della grande poesia americana desunta dalle pessime versioni in lingua italiana da subito in circolazione, da Sereni/Campo in avanti, la più importante perché davvero nuova e libera perciò la più influente del Novecento (altro che la mitizzata letteratura russa dei castrati scrittori russi, mai liberi, avviliti per secoli da più forme di tirannia, con buona pace di Nori e compagni, inventori di censure inesistenti a scopo di lucro e al fine di conservare il visto per volare in Russia passando, oggi, non si sa più da dove: vergogna! "Intellettuali" da cabaret che non sanno vedere oltre il bordo della pagina scritta di un libro: l'intellettuale è quell'artista che, attraverso la propria opera, ragiona sopra i fatti del mondo, che non sono i fatterelli suoi e basta, utili solo a fare fronte alla spesa della bolletta e del tozzo di pane).
Questi, Gianfranco (Lauretano), scrivono tutti in americanese –che inizia con Pavese. Magari sapessero scrivere in prosa. Una bella prosa. Questi vanno a capo un tanto al metro. Quando inveceil poeta autentico, dal Novecento, ma anche già dall'Ottocento (da dopo Baudelaire, diciamo per i più giovani), scopre e si pone in ascolto di un suo proprio ritmo interno che cerca di ripartire sul foglio bianco per riportarne un suono che sia ritmato (musica: la poesia è musica pervoce umanacapace al canto;e da millenni, per processo di perfezionamento, senza più bisogno di alcun accompagnamento strumentale) alla sua propria metrica, sua!e di nessun altro; e allora, come riconosceremmo ascoltandouna canzone di musica leggera il suo autore, così dovremmoriconoscere dalla lettura di una poesia chi l’ha composta, ma questo ci accorgiamo che accade raramente, perché ci sono sì i poeti, ma soprattutto si trovano all’ingrossogli scrittori di poesia, i Professorenpoesie, quelli bravi, alla noia, quelli alla Eliot, per intenderci – ovviamente anche la prosa ha un suo ritmo, ma è meno battente perché più legata al significato/segno che al significante/suono.
E non è mai esistita la poesia prosastica Gianfranco (Lauretano) – quella prostatica sì, mi suggerisce invece un felice autografo di Guido Lopardo: "Poveri versi! / spremuti da / prostatici / e vecchi merletti", che bene sintetizza, in versi e non in prosa, lo stato della poesia italiana che si pubblicano tra di loro, e che si citano tra di loro, e che si criticano tra di loro, mentre qui si muore di noia solo a pensarli questi "quattro" fessi, perché il verso può essere solo della poesia. Il confronto con le forme metriche tradizionali è sbagliato, sempre, perché lo scrittore, quindi anche il poeta (il poeta è uno scrittore, e sia chiaro una volta per tutte anche questo in questo Paese), deve sempre confrontarsi con i mutamenti di linguaggio che lo circondano così da poter aggiornare la propria di lingua (persino i propri gesti, insisto!, per questo scrivo "linguaggio" e non semplicemente“lingua”), il proprio vocabolario d'artista, come farebbe un pittore sulla sua tavolozza se si accorgesse di un'altra possibilità di azzurro –di gitto non si diceva neanche nel 1925, povero Gobetti. Quindi non c'entra proprio la poesia Gianfranco (Lauretano) in questa e altre antologie. Trattasi invece di un ristretto distretto (ma fin troppo largo) di agricoli, di coltivatori d'ombelicoli, di irriducibili produttori di appiccicaticcia lana ombelicale.
Gianfranco (Lauretano) quello che cerchi di analizzare (articolo: https://www.pangea.news/poeti-italiani-anni-sessanta-lauretano/) partendo da una antologia (grave errore formale, lo ripeto, anche se dentro ci sei pure tu) e da tutto quello che l'ha preceduta, è solo l'inganno bello e buono prodotto ad hoc da un gruppetto di penne senza talento a proprio personale gradimento allontanando gravemente il lettore italiano (pochissimi) dalla poesia, giustamente, per la noia con la quale hanno fatto libri che dicono essere di poesia; e la noia uccide anche i santi più santi di tutti: anche San Gennaro smetterebbe di sciogliersi a leggerli – e io sono un santo (magari non dei più santi) perché me li osservò tutti, e mi sforzo ogni volta, credimi, di non lacerarmi i lati della bocca dagli sbadigli.
La poesia Italiana del Novecento e oltre, dicevo a Roma qualche giorno fa a Giorgio Linguaglossa, è provinciale perché non riesce neanche ad affacciarsi alla finestra, a vedere se fuori c'è il sole oppure piove – sono del mondo solo Ungaretti, Pasolini e Sanguineti, e da questi pilastri non si stacca in volo proprio nessuno; e forse non diciamo niente più: non c'è più bisogno di dire altro, come concluse Eduardo a sapere della morte di Pasolini.
MASSIMO RIDOLFI
Ph.: Immagine fotografica tratta da "PoETS at HOME", photoreportby Fiorella Sampaolo
(Copyright © giugno 2020 Fiorella Sampaolo per Letterature Indipendenti), Gianfranco Lauretano meets Massimo Ridolfi, TERAMO, 13 june 2020