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di Antonio D'Amore   Stat Teramo Pristina Nomine, Nomina Nuda Tenemus.   C’è stato un tempo, ora lontano, nel quale Teramo era la più ricca delle città abruzzesi. Ricca nel senso più vero del termine. Di soldi. O meglio: di depositi bancari. Teramo era la città delle banche. Qui aveva la sua “testa” la Banca Popolare, una delle più importanti del Centro Sud, eternamente presieduta da Giandomenico di Sante, democristiano. Qui aveva la sua “testa” la Cassa di Risparmio, una delle più importanti del Centro Sud, eternamente presieduta da Lino Nisii, democristiano. Qui aveva la sua “testa” il Mediocredito, eternamente presieduto da democristiani, Carino Gambacorta prima e Emilio Mattucci poi. Qui ha (ancora per poco) la sua “testa” la Banca di Teramo, voluta e presieduta da Antonio Tancredi, democristiano. Quella Teramo non c’è più. La Banca Popolare è stata assorbita, poi riassorbita, poi assorbita ancora, in un gioco di travasi bancari, nel quale di “teramano” è rimasta solo la “personalizzazione presidentizia” di Di Sante. Il Mediocredito non c’è più, ingoiato dal fratello maggiore lombardo. La Tercas c’è ancora, ma è solo l’insegna locale della Banca Popolare di Bari, così come la Banca di Teramo sembra (siamo già oltre la due diligence) in procinto di diventare l’insegna locale della Bcc di Roma. Quella Teramo non c’è più. Sopravvive il nome, come nell’eco lontana della rosa evocata da Eco, ma niente di più di un nome. E un nome non basta. Anzi: corre il rischio di diventare un’esortazione al dolore della memoria, un lusso che – in un’epoca popolata da quotidiani spunti di dolore – non ci possiamo permettere. Com’è successo? Perché è successo? Quando è successo? La risposta è in un aggettivo, in quello stesso richiamo “primarepubblicano” che ho volutamente ripetuto: democristiano. La causa prima e ultima della crisi teramana, che non è solo bancaria ma che le banche rappresentano, è nel suo essere rimasta “eternamente” democristiana, confinata in un universo autoreferenziale e autoportante, nel quale tutto si ripeteva in un volgere eterno di situazioni identiche. Come la Macondo di Marquez, Teramo è stata incapace di aprirsi al mondo, anzi: quel poco di mondo che arrivava alle porte di Interamnia, veniva guardato con stupore, magari con ammirazione, ma sempre col distacco dei riminesi felliniani davanti al Rex. Bello, purché sia solo di passaggio. E il mondo è passato, un po’ più in la. Mentre gli eterni signori della teramanità, feudatari senza feudo, non riuscivano ad intuire che il vero potere è quello di sapersi creare un dopo, un erede, Teramo si ripiegava sulle sue convinzioni di unicità, isolandosi terribilmente. Nella sua coraggiosa lettera aperta alla città (che non ha avuto le risposte che mi auguravo avesse, ma temo che molti, tra i destinatari primi, non l’abbiano saputa leggere), Maria Cristina Marroni ricorda “la frase scolpita nell’architrave della finestra laterale del Palazzo medievale dei Melatino, frase tratta da quella miniera d’oro che sono le Epistole a Lucilio di Seneca: “Sapienti nihil est necesse” (Ep. 9, 14), cioè: “Nulla è indispensabile al saggio”.   Per troppo tempo, Teramo ha lasciato che quel sapienti si leggesse “potenti”. Arroccati sui loro troni, i vari Nisii, Tancredi, Di Sante, hanno dimenticato di allevare delfini in grado di prendere il loro posto, nel vitale alternarsi delle stagioni e dei cambiamenti. Così, quando il mondo è cambiato, Teramo non era pronta. Non c’è stata una classe dirigente di mezzo, in grado di traghettare Teramo dalla civiltà democristiana al mondo nuovo, quello delle nuove consapevolezze, delle nuove esigenze. Delle nuove idee. Che non sono mancate, ma che hanno scelto di lasciare Teramo pur di poter germogliare. Così, la piccola Atene diventava una grande periferia senza centro, la demotivata città di condannati alla residenza. Intanto, se ne andava la caserma degli alpini (col suo carico di reclute che produceva ritorni economici certi), se ne andavano le sedi della Sip, dell’Abruzzi Gas, dell’Enel… un progressivo spossessamento istituzionale che, ovviamente, i teramani hanno considerato un’aggressione. In realtà, la città non si stava spegnendo perché tutti se ne andavano, ma tutti se ne andavano perché Teramo si stava spegnando. Rileggo, con la memoria, i miei primi giorni da cronista, trent’anni fa, gli scontri sulla città del domani, i grandi progetti, le idee, la vivacità, la democrazia cristiana, ovviamente, nel suo momento regnante, tra correnti e sottocorrenti, vivace e propositiva (anche se di proposte per me, quasi sempre, non condivisibili). Oggi, si dibatte su un cantiere, su una nomina, su una poltrona. E il mondo, intanto, viaggia in fibra ottica e discute di strategie del futuro. Un futuro che rischia di ingoiare il nostro ospedale, la nostra Prefettura e tanto altro. Il nostro stesso essere provincia. Il nostro stesso essere teramani. Lo siamo di nome. Ma un nome non basta. E’ il momento, per dirla ancora con la Marroni, di una “Rinascenza Teramana”. Perché è sulle macerie che si può ricostruire. Perché è da qui che si può ripartire. Faccio mio il capoverso finale della lettera della consigliera: “Ed oggi che le forze disgregatrici sono soverchianti rispetto a quelle aggregatrici, oggi che si vedono troppi Roberto di Loretello e scarse capacità all’opera, oggi che volano molti stracci e poche idee, con tanti teramani che dolorosamente emigrano nonostante si consumi qui la scommessa per un fulgido domani, dobbiamo chiamare a raccolta uomini e mezzi, idee e risorse, per mandare al macero una guerra civile sotterranea, per tornare ad avere fiducia in chi ci amministra, per dissipare le nebbie delle idiosincrasie e delle incomunicabilità, per arginare lo spargimento di altro inutile veleno, per evitare che vi siano nuovi “Spennati”, per recuperare la tensione morale, per riassaporare l’ambizione del futuro (senza preposizioni aggiuntive), per tornare ad intessere un discorso pubblico, ad argomentare le proprie ragioni e finalmente a risorgere”. Io ci sto. Perché “Stat Teramo Pristina Nomine, Nomina Nuda Tenemus” non mi basta.