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di ANTONIO D'AMORE È iniziata subito, alle 7 di questa mattina, la visita dei teramani alla camera ardente di Marco Pannella in sala consiliare. Silenziosamente. Con discrezione. La città saluta un teramano, uno che non ha mai fatto mistero delle sue origini e che, a quelle origini, ha riferito spesso la natura vivace del suo carattere. C'è chi sale commosso, chi con una bandiera al collo, chi lascia un pensiero, chi si limita ad un saluto. Quasi tutti carezzano la cassa di legno, che ospita le spoglie mortali di un uomo che, a modo suo, ha segnato indelebilmente la storia politica del Ventesimo secolo. Ci sono i radicali di sempre, ma anche quelli che si erano un po' persi strada facendo. C'è in un angolo la corona del Presidente della Repubblica, vicina a quella del presidente del Senato, nell'altra stanza quella della Presidenza della Camera e di Renzi, ma quasi nessuno ci fa caso. Siamo a Teramo, quella è roba "romana". Da noi è diverso. Da noi è il pianto silenzioso di chi lo conobbe e lo ricorda, di chi non l'ha mai conosciuto e lo ricorda lo stesso. È la commozione dell'amico Marcello, ristoratore che "'nz so' fatt 'n temb a faij 'rpruvà li Virtù", è il picchetto in toga rossa dell'università che lo laureó, costringendolo ad una commozione sincera. È un vescovo che, tra cinque comunioni in cinque diverse parrocchie, trova il tempo di venire a salutare il laico Pannella. È un Sindaco che ha saputo farsi "presenza" vera, testimone di un momento del quale solo un giorno intuiremo il valore storico. È una domenica strana, per Teramo: comunioni in Duomo, lo struscio lento della festa, tutto il già visto di tanti giorni uguali, ma sempre diversi. Su tutto si stende il pensiero di Marco. Non è deferenza, non è pulsione provinciale al riconoscimento della fama. È teramanità. È quel nostro pensare storto, che ci costringe sempre e comunque a parlare male di tutto e di tutti. Perché è il nostro modo di volergli e volerci bene. Teramo saluta Marco. In silenzio. Senza esagerare. Con tutto l'affetto possibile. Ma quasi senza dirlo. Perché è uno di noi. Siamo fatti così. E lui lo sa. E lo sapeva, anche, quando il Sindaco gli ha portato le chiavi di Teramo, quelle chiavi che non hanno mai lasciato la bara e che Marco ha voluto stringere mentre se ne andava, perché sapeva che non se ne stava andando. Stava tornando a casa. Quelle chiavi, gli servivano per rientrare.