• FESTA AGRICOLA
×

Avviso

Non ci sono cétégorie
di Antonio D'Amore Gatti non c’è. Adesso è ufficiale. Paolo Gatti non è candidato al Parlamento. Ho letto, tra i commenti della prima ora, qualcuno che sentenziava: “Gatti è stato vittima della fine del modello Teramo”. Non è vero. Secondo me, non è vero. Per due motivi. Il primo è che il modello Teramo è finito tanto tempo fa, esattamente nel momento in cui le urne hanno consegnato a Catarra la presidenza della Provincia, Perché, in quel momento, il centrodestra teramano si è sentito onnipotente ed imbattibile. Al punto da dimenticare la regola prima della politica: l’ascolto. Quel centrodestra, quello del Modello Teramo appunto, si è compiaciuto di esistere al punto di fare dell’autoreferenzialità una ragione di esistenza. Governava la Regione, la Provincia e la Città. Fece di sé stesso l’unica ragione di esistenza, ignorando i segnali di crisi pur chiarissimi che arrivavano, come l’allontanamento di Silvino, i primi raffreddamenti della destra tradizionale, la crescente occupazione degli spazi da parte del multilevel gattiano. E’ quando vinci, se non sai vincere, che cominci a perdere. La curva gaussiana del consenso politico suggerisce, dall’apice, il senso della caduta. Così, come nella storia recente del calcio italico, passato in 12 anni dal vincere i mondiali al non giocarli, il Centrodestra teramano è passato dall’onnipotenza all’oblìo. Persa la Regione, persa la Provincia, commissariato il Comune. Fine del Modello Teramo. Eppure, e qui vado al secondo motivo della mia premessa, la mancata candidatura di Paolo Gatti non è figlia di quella stagione. Lo dimostrano i fatti, anzi: le liste. C’è Giandonato Morra, per Fratelli d’Italia, capolista alla Camera con (secondo me) ottime e meritate possibilità di riuscita. C’è Giorgio D’Ignazio (con Paolo Tancredi a guidarlo), capolista per la Civica Popolare della Lorenzin, anche se in uno schieramento diverso da quel centrodestra nel quale eravamo abituati a vederlo candidato, ma la cosa confesso non mi scandalizza (come sembra fare invece per qualche immemore commentatore), visto che Giorgione è di formazione democristiana, come lo sono tanti centristi moderati, poi ritrovatisi per un caso o per l’altro diasporati dopo la morte della Balena Bianca. Certo, non sarà facile spiegarlo agli elettori, ma gli italiani ormai sono abituati a non farci più tanto caso. C’è Lucrezia Rasicci, che è giovane, ma di quella stagione eredita l’esperienza del padre Renato, indimenticabile nel suo essere atipico assessore provinciale. E poi, c’è Gianni Chiodi. E non solo: c’è Chiodi grazie alla tessitura silenziosa di un progetto pensato da Mauro Di Dalmazio, altro protagonista di quegli anni. Sì, è vero, Chiodi non è in Forza Italia e candidarsi con la quarta gamba di Noi con l’Italia non è facile, anche perché c’è un quorum da raggiungere. Ma intanto Chiodi c’è. E Gatti no. Qualcuno racconta di notturni rifiuti, opposti dal leader di “Futuro in” ad ipotesi candidatorie collaterali a quella Forza Italia che, su di lui come sul presidente emerito, aveva messo un veto. Qualcuno dice che, a cospirare contro i due teramani sia stato Nazario Pagano, a vendicare una serie di sgarbi politico/territoriali che avrebbe subito. Forse, ma non mi convince. Mi convince, molto di più (anche perché ne ho conferme romane), un certo fastidio associato al nome di Gatti a causa della caduta del Comune di Teramo letta, dai dirigenti di Forza Italia, come un’inutile manifestazione di forza, un improduttivo mostrare i muscoli contro un collega di partito, finalizzato poi non a migliorare la situazione, ma a consegnare la città al commissario. Gatti non è stato candidato, perché ha fatto lo stesso errore del Centrodestra teramano: sentirsi onnipotente. Ha considerato i suoi diecimila e più voti così “pesanti” dal consentirgli atteggiamenti che in politica non pagano mai. Ha creduto che davvero, a Roma, nessuno ricordasse quel suo candidarsi al Parlamento con la Meloni, per poi rientrare in Forza Italia a sconfitta patita. Si è reso così “ingestibile” che quello che era il suo partito, ha preferito tentare di perderle queste elezioni, candidando su Teramo la Pelino, piuttosto che preferire un candidato forte locale. Ho scritto “era” il suo partito perché credo che, a questo punto, Gatti non possa e non debba restare in Forza Italia. Non possa, perché un partito che lo considerava meritevole di occupare la poltrona di vicepresidente del Consiglio Regionale, non avrebbe dovuto “esporlo” al gioco massacrante della candidatura sì o no. Non debba perché, a questo punto, sarebbe non dignitoso accettare rinnovi di candidature regionali, da parte di quello stesso partito. Se così farà, se cioè lascer Forza Italia, non avrà che una strada segnata, quella che lo porterà direttamente alla candidatura a Sindaco di Teramo. Una volta, mi confessò che avrebbe voluto che quella carica, la più importante della città, arrivasse alla fine della sua carriera politica. A volte, quando tutto sembra confuso e complicato, il segreto è proprio questo: ripartire  dalla fine, senza fare errori.