
l'Editoriale / LA PARTITA A... MORRA DEL CENTRODESTRA, IL WEST, LA NAZIONE INDIANA, SEGNALI DI FUMO, CARRI IN CIRCOLO E LA MUSICA CHE SI SPEGNE
di Antonio D'Amore
La prima immagine che mi viene in mente, è quella dei film western, quando i “visi pallidi” mettono i carri in circolo e vengono circondati dai pellerossa, che cominciano a girare a tutta velocità, ma non attaccano. E’ un gioco di stancheggi e di nervi.
Lo so. Lo so che adesso penserete: che c’entrano gli indiani e il far west in un articolo che si intitola “Partita a… Morra”? C’entrano. E ve lo spiegherò.
E siccome voglio confondervi ancora di più, partiamo da un altro gioco, che sa di panini imburrati e coca cola calda, di candeline e di ginocchia sbucciate. E’ il gioco delle sedie, quello con una seduta meno dei partecipanti e la musica che si ferma all’improvviso. E qualcuno resta in piedi. Ecco, il gioco che impegna in queste ore il Centrodestra teramano è una sorta di miscellanea confusa di questi tre giochi. Confusa, perché in un gioco contano le regole, e qui le regole sono saltate e si sta cercando di riscriverle. Ma tutti vogliono giocare, e ognuno vuole farsi le regole a modo suo.
La musica si è spenta il 4 marzo, e in piedi è rimasto il Modello Teramo, definitivamente consegnato alla storia dalla mancata candidatura di Gianni Chiodi in Forza Italia. Si sa, se in piedi resta il capoclasse, si toglie una sedia e se ne cerca un altro. Ci ha provato Paolo Gatti, che aveva probabilmente immaginato di accompagnare la Giunta Brucchi verso una dolce eutanasia pre-elettorale, per poi poter gestire la doppia fase locale - nazionale in un gioco di reciproche amplificazioni, ma l’ipotizzata eutanasia è diventata un’esecuzione. Quando è caduta la lama della ghigliottina, Brucchi ha perso la testa e Gatti un posto in lista per il Parlamento. Raramente, in queste pagine, siamo stati prodighi di complimenti per il leader di Futuro In, gli va riconosciuto però che la gestione delle ultime settimane non è soltanto politica nel senso della strategia, ma lo è nel senso vero della ridefinizione degli spazi e della creazione di una nuova idea di coalizione. Gatti sta giocando di sponda, anche con una certa eleganza silenziosa. Addirittura, in un incontro pubblico ha ammesso che il centrodestra deve chiedere scusa, per gli ultimi tre anni. Non è un mea culpa, ma una presa d’atto sincera. Positiva. Tra quelli che girano intorno ai carri, i pellerossa di Futuro In non ci sono, loro sono quelli che non hanno neanche imbracciato l’arco, ma se ne stanno sulla collina, in attesa, non pressano, fanno sapere di esserci e di essere in tanti. Ma tanti tanti. Aspettano.
Sulla collina, ma su un’altra, anche quelli di Forza Italia, di capo Brucchi, che sta ancora smaltendo la rabbia, ma sa che si vince solo se si va in guerra tutti insieme. Fa buon viso a cattiva sorte, e sogna lontane praterie aquilane.
A guidare il cerchio più stretto, per definizione più vicina “al centro per”, è la tribù di Di Dalmazio, che non ha velleità da capoclasse (ha rifiutato finanche la candidatura romana), ma sente la responsabilità di doversi fare promotore della creazione di una nuova alleanza tra le tribù, anche perché fu la sua la prima a dare il colpo d’ascia al totem brucchiano.
I dalmati hanno imbracciato l’arco, incoccato le frecce e teso le corde e con loro l’hanno fatto quelli della tribù di Rudy Di Stefano (che il totem brucchiano lo prese a picconate), poi quelli della tribù nomade di Giulio Cesare Sottanelli, in perenne ricerca di nuovi pascoli e nuove alleanze, a seconda delle stagioni e del vento che tira.
Oltre la collina, seduti intorno alla fiamma sacra, stanno quelli della tribù di Morra. Armati, agguerriti, determinati, caricati dal recente successo di una campagna importante e, soprattutto, guidati da un capo carismatico, che molti vorrebbero alla guida di tutta l’unione delle tribù. In lontananza, si alzano i segnali di fumo della tribù leghista di Canzio, e sono segnali di fumo scuro, visto che non è stato invitato al consiglio dei capi e c’è rimasto male. Molto male. Non così male da andarsene, per ora, ma mastica amaro.
Chiunque abbia visto un film western dirà, a questo punto, che la storia è già scritta: i capi delle tribù vanno da Morra, gli propongono di diventare Gran Capo e di guidare tutto l’assalto, lui accetta e si comincia. Già, ma le regole non scritte del galateo pellerossa sono ferree, perché la cosa riesca, è necessario che tutti i capi si accordino e poi, solo poi, vadano da Morra. Invece, sta succedendo il contrario: la tribù dalmata invoca un capo unico (e fa il nome, ma non lo fa ufficialmente), la tribù di Rudy dice che ci sta (e concorda sul nome, ma non concorda ufficialmente), la tribù di Sottanelli dice che gli va bene tutto, pur di esserci, mentre i messaggeri di Gatti e Forza Italia, scesi dalla collina, si dicono solo in attesa di un cenno, per entrare in guerra.
Che manca? Paradossalmente, niente. Eppure la situazione è in stallo. C’è chi gira intorno ai carri, chi attende e chi - attenzione - potrebbe anche stancarsi di aspettare. Il tempo della diplomazia non è il tempo della guerra, e invece il Centrodestra teramano sta facendo questo gravissimo errore: confonde i linguaggi col rischio che, quando si arriverà al punto di andare a chiedere a Morra di diventare il Gran Capo delle Tribù unite, l’accampamento possa essere stato abbandonato, perché la tribù morresca potrebbe aver deciso di scendere in guerra da sola. L’attesa non giova neanche alla pax gattiano-forzista, perché i giovani delle tribù scalpitano e qualcuno potrebbe decidere di non attendere oltre, e scendere anche qui in guerra da solo.
Il limite tra l’attacco delle tribù unite e il tutti contro tutti, è un limite temporale, non politico.
Continuare ad accreditare una candidatura che ancora non c’è, a dare per scontato un accordo che non è stato trovato, è il modo migliore per distruggere prima di costruire. Serve una mediazione e serve subito. Il mediatore naturale sembra essere Gaetano Quagliariello, l’unico che potrebbe convocare tutti i capi, far fumare il calumet dell’alleanza e poi andare da Morra per l’investitura ufficiale.
Facile, no? E invece, no. Perché Morra ha già fatto sapere che dalle tribù non chiederebbe solo l’appoggio e l’impegno, ma pretenderebbe uomini. Nuovi. Di quelli che non hanno avuto incarichi o esperienze nel vecchio Consiglio delle Tribù. Di quelli che non hanno mai avuto ruoli o poteri. Nuovi. Prima di andare da Morra Quagliariello non dovrà solo creare una nazione indiana, ma dovrà chiedere alle tribù di lasciare i “vecchi” sotto gli alberi, perché per loro non c’è più posto.
Ma dovrà far presto. Molto presto. E dovrà farlo bene, molto bene. Se fallisce, il centrodestra rischia di finire per almeno cinque anni in una “riserva indiana”, a raccontare ai turisti storie e leggende di perduta grandezza.
