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leonodari

Caro Leo

Sì, è vero, non è tradizionale che una testata giornalistica scriva una lettera ad un amico. Anzi: ad un amico così stretto da avere una sua rubrica proprio in quella testata, come accade a te col tuo “ruggito”. In fondo, chissenefrega delle tradizioni, così per quanto atipica, questa lettera te la scriviamo. E te la scriviamo oggi, a meno di 24 ore dalla cerimonia conclusiva della 23esima edizione del Borsellino.
Perché quella di ieri, è stata una giornata speciale.
Della quale, dobbiamo ringraziarti.
E lo facciamo inviando questa lettera aperta, per conoscenza, a tutti i teramani. A tutti quelli che, nella “tua” e “nostra” città, fanno da sempre finta che tu non esista. A tutti quelli che, nella “tua” e “nostra” città, ti negano le sale per una manifestazione, non ti chiamano quando c’è da organizzare un evento, non leggono i tuoi progetti o, e questi sì che non mancano mai, si impegnano sui social per cercare in qualche modo di colpirti.
Lo sai, siamo fatti così. In questa città sopravvivono sacche di analfabetismo reale, manipoli di ignoranti veri e propri, plotoni di (giustamente) emarginati per manifesta incapacità, che continuano a vomitare su tutto e su tutti.
Sono il cancro morale di questa città, contro il quale esiste una sola terapia possibile: una chemio dell’anima.
Ecco, nutrire l’anima è il segreto, l’unica risposta possible, l’unica luce che possiamo accendere quando il buio della barbarie spegne ogni pensiero nobile.
Ci sarebbe piaciuto, sai Leo, vedere la cerimonia finale del Borsellino a Teramo.
Ci sarebbe piaciuto vedere come, una città che ha considerato “storica” (virgolettato minuscolo) l’allegra gita fuori porta dei 62cellos, avrebbe giudicato quella che Storica (maiuscolo e senza virgolette) avrebbe considerato la cerimonia di ieri.
Perché ieri, al Borsellino, non c’erano solo i premiati e le autorità, i ragazzi delle scuole e le scorte, la musica e i fotografi, i discorsi e i sorrisi.
Ieri, c’era l’Italia.
Quella vera, sana, per la quale ci si può ancora emozionare.
Nella quale si può ancora credere.
L’Italia di Don Aniello Manganiello, parroco di Scampìa che negò la comunione ai boss della camorra e che ieri diceva: «Io voglio tornare a morire a Scampìa», applaudito dai ragazzi della squadra di calcio di Sua dell’Oratorio “Don Guanella” sempre di Scampìa, felici di esserci, «Perché di noi hanno tutti un’idea sbagliata».
L’Italia della magica musica di Pietro Lombardi, che non organizza concerti contando i “cellos” ma porta in giro trenta ragazzi speciali.
L’Italia dei giornalisti come Marilena Natale della “Gazzetta di Caserta” che vive sotto scorta da due anni perché ha scritto del clan dei Casalesi o Daniele Piervincenzi di Rai 2, che a furia di mettere il naso dove nessuno voleva metterlo, se l’è fatto rompere da una testata.
L’Italia di Ilaria Cucchi, perché un Paese lo devi amare fino al punto di credere che possa essere capace di ammettere di aver sbagliato, anche se quello “sbaglio” ha ucciso tuo fratello.
L’Italia di Shel Shapiro, che italiano non è, parla ancora un italiano da band Anni ’60, dice che credere di poter difendere la legalità con la musica «..è una stronzata» ma poi canta i primi articoli della Costituzione. E ti emoziona.
L’Italia di Giovanna Boda, direttore Generale della Direzione per lo Studente del MIUR, che ricorda come ogni mattina, in questo Paese ottocentomila professori e ottomilioni di studenti entrano in una scuola, e come diceva Antonino Caponnetto “L’acerrimo nemico della mafia è la scuola”.

L’Italia di Giovanni Impastato, fratello di Peppino Impastato, che racconta non pensa emozione come a cento assi da casa sua oggi ci sia ancora la “casa” del boss che ordinò di uccidere suo fratello, ma quella casa oggi è di tutti gli italiani. E quindi siamo tutti 100 passi più avanti sulla strada della libertà.
L’Italia dei poliziotti e dei Carabinieri, quelli che alla guerra contro le mafie pagano ogni anno un doloroso tributo di vite e di sangue. Nomi che noi dimentichiamo con troppa faclità.
E poi l’Italia dei magistrati.
Ieri, alla cerimonia del premio Borsellino, c’era Giovanni Musarò, già magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, attualmente sostituto Procuratore direzione distrettuale Antimafia di Roma. Sono sue alcune delle più importanti inchiesta contro la criminalità organizzata a Roma, come “mafiacapitale”. C’era Alessandra Dolci nemico numero uno della criminalità organizzata nel Nord Italia Procuratore Aggiunto e Coordinatore DDA Milano, che ha guidato le inchieste contro la ‘ndrangheta al Nord. C’era Lia Sava, che fu pubblico ministero del processo sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, oggi è Procuratore Generale di Caltanissetta, una delle pochissime donne in Italia. C’era Federico Cafiero De Raho, Procuratore nazionale Antimafia. Tutta gente che vive da anni sotto scorta, e lo scriviamo nella certezza che non mancherà qualche coglione (perdonate il francesismo), che sui social non mancherà di criticare i costi di quelle scorte, il modello delle macchine blindate, magari postando anche il filmatino dell’arrivo della macchina con la scorta.
Del resto, chi considera “coraggioso” nella vita l’insultare sui social, o magari si sente difensore della legalità per aver messo un “tutti a casa” sotto la foto di qualche politico, che volete che ne sappia del coraggio che ci vuole a vivere davvero?
Ma tu, Leo, queste cose le sai. Le sai perché il Premio Borsellino lo organizzi da quasi trent’anni e se, ieri, l’ex vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura poteva ricordare come, tra i premiati, tu annoverassi anche tre o quattro presidenti della Repubblica, vuol dire che questo non è un premio. Ma un seme. Un seme che lascia nel cuore, sì: nel cuore, di chi si concede la possibilità di ascoltare, il germoglio di una speranza.
La speranza di un mondo migliore.
Di un Paese migliore.
Di un’Italia nella quale si possa vivere con quel sottofondo di fierezza che ti viene dal sapere che, per fortuna, non siamo solo un popolo di webeti.
La speranza, e qui la lettera si rivolge alla Teramo migliore, che anche nella nostra città le scuole, tutte le superiori, ripetiamolo in maiuscolo TUTTE LE SUPERIORI si aprano agli incontri del Borsellino. Come ha fatto Sabrina Del Gaone a Roseto con il suo Moretti o Alessandra Di Pietro del “De Cecco” di Pescara.
Gianguido D’Alberto è andato a portare il saluto di Teramo ad Ilaria Cucchi.
«Il primo Sindaco di Teramo che viene al Borsellino…» commentavi sottovoce, Leo.
Forse qualcosa a Teramo si muove, ma si può e si deve fare di più.
Perché, forse, serviranno anche le raccolte di firme per reintrodurre l’educazione civica, ma sentire un magistrato che vive sotto scorta, con una condanna a morte mafiosa sulla testa, che è già scampato a qualche attentato che dice: «Io faccio il lavoro più bello del mondo…» serve molto di più.
Grazie Leo.