La giovinezza ci porta in eredità i sogni, che diventano ali per il nostro destino. Voliamo attraverso i sogni, regrediamo attraverso le nostre paure. Il protagonista del romanzo "Le notti bianche" di Fedör Dostoevskij, pubblicato per la prima volta nel 1848, è proprio un sognatore, che vive quasi una realtà parallela, costruita dall'immaginazione. Non ha amici, fa l'impiegato senza stimoli: per questo non vive, ma sopravvive.
Il titolo del libro allude al fenomeno delle "notti bianche", che avvengono a San Pietroburgo tra fine maggio e inizio luglio, quando la Città diventa un luogo da fiaba, perché i riflessi rosa del cielo illuminano di un colore unico il Delta del Neva. Allora la luce del sole resiste alle tenebre: "lux omnia vincit".
Durante una di queste notti, mentre San Pietroburgo si svuota per la villeggiatura, il giovane protagonista, sentendosi particolarmente solo, insonne, vaga lungo le rive del Nevskij, così caro a Franco Battiato.
Con gli occhi nelle stelle e con l'anima nello spirito della Città, con cui si sente quasi in simbiosi, tanto da percepire "qualcosa di ineffabilmente commovente", inizierà per lui "una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani (...). Il cielo era così stellato, così luminoso che, guardandolo, ci si chiedeva istintivamente: è mai possibile che sotto un simile cielo vivano uomini collerici e capricciosi?"
La notte risveglia il desiderio, per Sofocle la stessa "forza che vince e ha il potere delle grandi leggi del mondo".
Durante questa notte quasi irreale, che diventa sogno nel sogno, il giovane incontra una ragazza Nastenka, che attende il ritorno di un amore perduto: "Essa sembrò non accorgersi del rumore dei miei passi e non si mosse affatto quando le passai accanto trattenendo il respiro, mentre il cuore mi batteva a colpi accelerati". Per quattro notti i due giovani si scambiano confidenze, penetrando l'uno nell'anima dell'altra e riempiendo le rispettive solitudini. Nastenka apre una crepa nell'esistenza del giovane, da cui passerà una luce: egli prova desiderio, si sente, per la prima volta, vivo e libero.
I sogni, tuttavia, muiono al risveglio: subentra allora, di nuovo, la realtà, con la quale bisogna fare sempre i conti. Il quinto giorno l'amore perduto di Nastenka ritorna con la luce del Sole, che, con la falce scintillante in mano, recide la speranza di resurrezione del protagonista, il quale risprofonda nella solitudine.
Dostoevskij ci lascia con un grande interrogativo: vale la pena provare, sebbene per poco, la felicità, oppure assaporarla e poi perderla reca con sé maggiore dolore? Nell'era contemporanea, quella della felicità a tutti i costi, in cui la felicità deve garantire un'ininterrotta capacità di prestazione, forse diremmo di no, meglio non sentirlo quel dolore neppure nel ricordo. Ma noi siamo adulti, razionali e lucidi anche nei sogni.
Per i giovani sognatori, innamorati, il bello è proprio quel punto, il limbo delle cose sospese, restare nella tensione di un permanente principio, nel nascondiglio di una vita nell'altra.
Ciò che è accaduto rimane ed è un bene che sia accaduto: perché le persone più vive sono morte tante volte e, poi, di nuovo rinate.
“Un intero minuto di beatitudine! È forse poco, sia pure in una intera vita umana?” No, non lo è affatto.
MARIA CRISTINA MARRONI