L’anno 2021, più di ogni altro, è stato caratterizzato da un libro che ne ha analizzato e cristallizzato lo zeitgeist: “L’era della suscettibilità” della giornalista e scrittrice Guia Soncini.
È il testo fondamentale per comprendere i nostri tempi, la bibbia di chiunque non voglia farsi cogliere impreparato e non voglia ferirsi nel magma delle relazioni umane, della vita sociale e del contesto professionale, scolastico, comunicativo.
Tutti abbiamo piena coscienza del fatto che oggi sia impossibile esprimere qualsivoglia opinione (e addirittura quasi ogni fatto) senza essere costretti a subire lamentele, processi, polemiche fuori contesto.
Tutti sappiamo che oggi è rischioso finanche celebrare l’appena scomparso Paolo Pietrangeli, cantautore e regista reso iconico per aver composto la canzone simbolo del 1968, “Contessa”, il cui testo recita “Compagni, dai campi e dalle officine / Prendete la falce, portate il martello / Scendete giù in piazza, picchiate con quello”. Oggi non la si può più cantare senza venire ricoperti dallo sdegno di chi alza il sopracciglio e stigmatizza qualsiasi parola suscettibile di inneggiare alla violenza.
Tutti assistiamo basiti ai processi postumi cui vengono sottoposti film storici, rei di non essere al passo con la contemporaneità, ai processi inauditi cui vengono sottoposti capolavori della letteratura mondiale, stuprati e riscritti in un linguaggio consono che oggi non offenda nessuno.
Tutte le donne hanno provato “il sospetto d’essere lì solo perché dotate di vagina”, un sospetto “che coglie ogni donna cui venga assegnata una mansione nell’era in cui ognuna di noi è stata in mille riunioni in cui si è detto «ci vuole una donna» e in nessuna in cui si sia detto «ci vuole qualcuno di capace»”.
Tutto ciò è l’esito dell’indignazione diffusa e oramai introiettata, degli scandali passeggeri onnipervasivi, della costruzione monumentale – ancorché non giuridica – di un nuovo diritto, il diritto alla suscettibilità. Tale diritto si fonda su due pilastri: il diritto di offenderci e il dovere di indignarci.
Come e perché si sia arrivati a codificare nella prassi quotidiana il dovere di ciascuno di ergersi a Torquemada dell’altro, stigmatizzandone ogni battuta come se consistesse in un grave sgarbo alla religione laica della convivenza civile, come se dare del “genovese” all’amico che non ti paghi il caffè fosse un proditorio attacco all’integrità morale della persona, questo saranno i libri di storia a chiarirlo.
Per adesso ci limiteremo a sorbire, quale prezioso nettare dello spirito, il libro-cronaca della Soncini, un po’ pamphlet, un po’ trattato sociologico, un po’ seduta psicanalitica collettiva. Un libro che ha il merito di cogliere il fastidio diffuso, il prurito che proviamo dinanzi ad ogni commento apposto su un nostro post di facebook, il ronzio alle orecchie che ci prende per ogni intemerata che ascoltiamo nei talk show e negli osceni spettacoli televisivi, intemerata avente costantemente ad oggetto il più futile degli argomenti.
Il diritto alla suscettibilità è cresciuto e si è consolidato grazie alla progressiva scomparsa del contesto: si estrapola una frase dal discorso complessivo e la si erge a capro espiatorio da esecrare per espiare tutti i sensi di colpa di una società in via di disgregazione.
Questo processo, avviato sciaguratamente negli Stati Uniti e piombato come una valanga su un’Europa inerme, incapace di contrastare – nonostante la sua storia e la sua cultura – i venti mefitici del movimento “Mee Too” e della “Cancel Culture”, si è via via rafforzato con il proliferare del “feticismo della fragilità”, in base al quale qualsiasi debolezza diviene un orgoglio da ostentare e un titolo di merito inscalfibile, per poi ingigantirsi con “l’epistemologia identitaria”, sulla scorta della quale “l’appartenenza prevale su qualunque curriculum di studioso”.
L’autrice coglie nel segno quando formalizza il punto dolente: “tutto ciò che non ci rispecchia alla perfezione sembra una violazione della nostra identità”, violazione che percepiamo come insopportabile, tale da indurci “a passare le giornate a sentirsi feriti da ogni maleducazione”.
Come ogni fenomeno sociale, la suscettibilità pervade anche l’ambito politico, laddove una classe dirigente non attrezzata intellettualmente e priva di substrato culturale finisce per soccombere al “Politicamente corretto”, con le conseguenze di una sinistra prona alle ondate di indignazione, prontissima ad atteggiarsi ai toni da fine del mondo dopo ogni parola sbagliata e ogni “voce dal sen fuggita” di qualsivoglia improbabile personaggio (pur privo di reminiscenze di Metastasio); mentre a destra residua qualche isolato “spazio per dire di tutto”, ma mancano come l’ossigeno genuini esegeti nonché strenui difensori della libertà d’espressione, minacciata dalla pressione massmediatica e vicina ad esalare gli ultimi respiri.
Senza piangersi addosso, occorre acconciarsi a comprendere i fenomeni che ci circondano, ad acquisire consapevolezza “che questo è il tempo del sentire, non dell’ascoltare. Del sentire inteso come to feel: provare emozioni, considerare sacre le proprie sensazioni”.
Da qui inizia il percorso verso i motivi per i quali “l’esistenza di chi la vede diversamente da noi ci offende”, l’analisi del “cosa ci abbia resi così fragili da sentirci in pericolo per l’esistenza stessa del dissenso”, del “perché la sinistra abbia scippato alla destra il primato del piglio censorio, e si compiaccia di far passare leggi per cui dire a qualcuno qualcosa di offensivo è un reato invece che, al massimo, maleducazione”.
Il tempo dirà se questo inconscio collettivo dominante si affievolirà, oppure se entrerà a far parte del nostro dna. Per ora è un salubre esercizio continuare a porci le domande: “Quando siamo diventati così bisognosi di tutele, così incapaci di mandare a quel paese chi ci dica qualcosa di spiacevole e di dimenticarcene dopo due secondi? Quando abbiamo deciso di preferire la tutela della suscettibilità alla libertà di parola?”.
MARIA CRISTINA MARRONI