Il romanzo della scrittrice sud-coreana Han Kang “La vegetariana” è davvero un pugno allo stomaco, sferrato all’improvviso, che fa provare un dolore acuto, difficilmente tollerabile. L’interrogativo che pone, sin dalle prime pagine, è se valga la pena vivere a tutti i costi, anche quando se ne è persa la ragione.
La protagonista Yeong-hye vive una metamorfosi volontaria: dopo un risveglio da un sogno orrorifico (“Ho fatto un sogno” dice al marito) in cui il suo corpo si perde tra quintali di carne putrescente, decide di diventare vegetariana. Tuttavia la sua scelta non si rivelerà semplice e serena, perché pian piano lei si spegne, si svuota, perde consistenza. Non lo fa come un asceta proteso verso un percorso di beatitudine, ma quasi come se volesse disintegrarsi e scomparire. La seguiamo così dimagrire progressivamente, persa nei suoi vestiti e con il corpo da cui scompare ogni parvenza di femminilità: il suo seno avvizzisce e il suo corpo sembra rimpicciolire e tornare bambino, ancora irrisolto nella sua sessualità.
“Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante”, così la prima voce narrante, quella del marito di Yeong-hye, presenta la scelta di una moglie che ha sempre considerato pressappoco inutile: un matrimonio routinario il loro, con una sessualità spenta. L’uomo, mediocre e poco sensibile, faticherà a comprendere la donna e, a un certo punto, deciderà di abbandonarla, disgustato. “Sarei dovuto tornare a vivere con quella donna strana e spaventosa, noi due soli nella stessa casa. Era una prospettiva che facevo fatica a comprendere”. Fino a quel momento la donna era stata silente e obbediente, questo l’uomo almeno le riconosceva.
Il secondo punto di vista è quello del cognato, che è, inconsapevolmente, attratto da quel corpo magrissimo e ne vuole fare un’opera d’arte: lo dipinge così di fiori e sperimenta un desiderio sessuale spinto all’eccesso. Troviamo qui contrapposti i fiori al sangue, la vita alla morte, la dipendenza alla libertà.
Il terzo punto di vista è femminile, di Inhye, la sorella di Yeong-hye, che resta, sola, accanto alla vegetariana, provando a comprenderla e a identificarsi con lei. La voce della protagonista resta confinata nel racconto dei suoi sogni, perché con la perdita di peso perde anche la voce. L’unica vitalità della donna rimane racchiusa nel rapporto con la natura: Yeon-hye spesso si denuda e si protrae verso i raggi del sole per diventare essa stessa pianta e mettere radici. Disincarnarsi equivale, allora, a tornare all’origine della vita: a Gea, alla madre Terra.
La scrittrice lascia volutamente sullo sfondo le ragioni psicologiche della scelta della donna: un’infanzia infelice, un matrimonio piatto e senza amore o un difficile rapporto con la madre. Non sapremo mai se la donna si senta una mistica o una vittima sacrificale. C’è un filo sottile ci unisce al mondo, che può rompersi repentinamente, Yeon-hye ci sale sopra come una funambula e lo attraversa.
Il romanzo è denso di significati: in primis la rivoluzione pacifica, ma decisa, di “una buona moglie” nella Corea del Sud , contro una società misogina, violenta e indifferente. Yeong-Hye, perde la parola, tace e si spegne, ma non retrocede di un passo dalla sua scelta, che diventa dunque libertà ideale, seppur lacerante: “Il dolore era come un buco che la inghiottiva, una fonte di paura intensa eppure, al tempo stesso, una strana, silenziosa pace”.
“La vegetariana” è un libro consigliato, da leggere però con molta cura e attenzione, perché tra quelle righe si annidano temi di intimità viscerale come la depressione, la follia, il sesso spinto all’estremo, il tutto avvolto in un’atmosfera noir e sinistra, che può portare a un turbamento fisico nel lettore.
MARIA CRISTINA MARRONI