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Novacri
Le famiglie felici si assomigliano tutte, quelle infelici no, sono infelici a loro modo, così esordisce Tolstoj in Anna Karenina. Anche la famiglia di Davide Ricci, il protagonista del nuovo libro di Fabio Bacà, “Nova” (Adelphi), è una famiglia da Mulino Bianco: lui è un affermato neurochirurgo, la moglie Barbara è una logopedista, vegana convinta, il loro unico figlio, Tommaso, è un ragazzo mite e appassionato del cosmo. Con loro convivono a Lucca due gatti, Epaminonda e Kociss, e un Jack Russell di nome Fred Flintstone. Ma quanto, in realtà, conosciamo gli uni degli altri? Quanto l’abitudine, la consuetudine offuscano il nostro giudizio? Quale presunzione abbiamo di giudicare una volta per tutte i nostri affetti, come se non potesse esserci più evoluzione nelle singole vite? Quanto un episodio inatteso, nel bene o, peggio, nel male può cambiare un carattere e farlo esplodere all’improvviso? Bacà, con il solito sarcasmo e con sufficiente distacco, prova a rispondere a questi interrogativi.
Dopo “Benevolenza cosmica”, stupefacente esordio con la casa editrice Adelphi, in cui l’autore demoliva persino la felicità, sostenendo che  anche il bene estremo possa portare a una forma di infelicità, di nuovo Bacà stringe e costringe il lettore nella morsa della violenza, che si insinua in una vita assolutamente tranquilla e banale. Quel tipo di vita che non si riterrebbe mai pronta a un evento psichicamente traumatico. La violenza appartiene, tuttavia, alla quotidianità più di quanto possa immaginarsi: quanti professionisti, con le cravatte inamidate, assumono atteggiamenti aggressivi solo per un parcheggio o in un litigio improvviso con il proprio partner. Quante volte, di fronte a un atto di violenza, volgiamo le spalle, pavidi e inermi?
“Il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare”, scriveva Manzoni a proposito di Don Abbondio, che di fronte alla violenza di Don Rodrigo piegava il capo e soccombeva. Anche Davide all’inizio del romanzo è un quiet man, coccolato da una vita banale ma serena, privo di coraggio anche nel confrontarsi con il primario del suo reparto, il Dottor Martinelli, ma quando si sveglia al mattino pensa sempre alla morte.
“A cosa pensa un uomo appena si sveglia? Cosa gli recapita la connivenza d’inconscio e realtà? Qual è l’oggetto delle sue prime, confuse meditazioni mentre tenta di recuperare la potestà sul vero? Quali le immagini, i suoni, i bisbigli, i tumulti nella sua testa? Probabilmente riflette su di sé, o sulla donna che gli dorme accanto. Forse pensa ai figli. Oppure ai genitori, all’amante, alla colazione, a un amico in difficoltà, alle scadenze fiscali, alla cena di gruppo del sabato successivo, al mal di schiena, alla politica, ai contrattempi professionali, alla macchina nuova in leasing che gli ha proposto il suo concessionario, a Dio, ai gol della sera prima, alla casa in campagna, alle vecchie ambizioni arenatesi chissà dove, alle caviglie di una collega, ai film di Christopher Nolan, alla mozione coito avanzata dalla fugace libidine dell’erezione mattutina. Davide no. Davide pensa alla morte”. Davide pensa alla morte come azzeramento dei problemi, come buio cupo dell’esistenza, tuttavia consolatorio. Davide pensa alla morte, perché è più semplice sottrarre il negativo dalla vita che aggiungere l’inatteso alla vita. Ci vuole coraggio anche e, forse, soprattutto per essere felici, per contenere il potere disturbante della felicità.
La vita di Davide cambia in modo improvviso, un giorno, in un ristorante, dove assiste a un episodio di violenza: mentre la moglie Barbara viene molestata da un ubriaco, davanti al figlio, il neurochirurgo guarda la scena da lontano, senza intervenire. Al suo posto interviene Diego, uno sconosciuto, a cui poi la vita di Davide si legherà.
Diego, monaco Zen, insegnerà a Davide il proprio Potere: ovvero quell’istinto primordiale, animale, che – se non controllato con la razionalità – può sfociare nella violenza. “C’è un Potere dentro di noi” disse a quel punto. Davide gli chiese cosa fosse, esattamente, questo Potere. Lui rispose che lo sapeva benissimo. L’aveva sempre saputo”. Anche le nostre anime sono state salvate da un atto di violenza.
Nova è un romanzo assai lucido sulla nostra contemporaneità, che teme la violenza, ma la ripudia senza indagarla: “la violenza è un potere ambiguo, che ha bisogno di essere controllato: se non lo domini, dominerà te. E non puoi controllare qualcosa che neghi a priori. Non puoi gestire una parte di te che rifiuti persino di concepire”. Davide dovrà compiere un percorso arduo per evolvere, da medico dovrà persino rinnegare il Giuramento di Ippocrate e rinegoziare tutto ciò in cui aveva sempre confidato.
Carl Gustav Jung, nel corso del seminario “Psicologia del Kundalini” asseriva: “C’è una quantità di persone che non sono ancora nate. Sembra che siano qui e che camminino ma, di fatto, non sono ancora nate perché si trovano al di là di un muro di vetro, sono ancora nell’utero. Sono nel mondo soltanto provvisoriamente e presto ritorneranno al pleroma da cui hanno avuto inizio. Non hanno creato ancora un collegamento con questo mondo; sono sospesi per aria, sono nevrotici che vivono una vita provvisoria: una vita condizionata”. Bacà taglia quel cordone ombelicale, grosso come una gomena da nave, e fa nascere, finalmente, Davide e noi lettori con lui, per realizzare davvero la nostra “entelechia”, il germe della vera vita, che in sé contiene sempre il bene e il male.