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VERGA
Il mio primo incontro con Giovanni Verga, di cui oggi ricorrono cento anni dalla morte, risale agli anni del liceo. Ma a quel tempo fui solo sfiorata dalla sua grandezza, perché altri autori come Pirandello apparivano molto più scintillanti, affabulatori, emozionanti. Poi all’università il Professor Alberto Asor Rosatenne un corso monografico sull’autore siciliano: la prospettiva mutò completamente. 

Verga inaugura la tradizione della grande narrativa siciliana moderna e la condizione di migrante intellettuale: Milano diventerà per lui, come per l’amico Capuana, la terra d’approdo, determinante per la genesi della sua poetica. “Le coppie ideative lontananza-vicinanza, adesione-distacco, partecipazione sentimentale e sofferto travaglio intellettuale” sono fondamentali per l’autore, che è assai più complesso rispetto alla linearità che gli si attribuirebbe ad una lettura superficiale e scolastica.

Non si possono leggere le opere di Verga senza tenere conto “dell’alto pathos morale” che tutte le pervade. La sua ricerca è sempre finalizzata alla sostanza del vero, anche quando le soluzioni estetiche, come nei suoi romanzi cosiddetti “borghesi”, potrebbero far credere il contrario. “Ho cercato sempre di essere vero, senza essere né realista, né idealista, né romantico, né altro, e se ho sbagliato o non sono riuscito, ne ho avuto sempre l’intenzione”.

Per Verga il realismo, come scriverà in una famosa lettera, è “la schietta ed evidente manifestazione dell’osservazione coscienziosa”, come se l’autore avesse una responsabilità di natura morale di fronte all’“obbligo della verità”. 

Rispetto a quello che accadeva in Francia negli stessi anni, dove il percorso fu più urgente e immediato, i nostri scrittori “concepirono il rinnovamento in termini di faticosa, travagliata deposizione del paludato camice romantico”. Il miracolo di Verga si palesa attraverso la forza della sua lingua, nella musica della lingua che si fa letteratura e impone dignità, persino il prestigio, aun mondo altrimenti deriso. 

Come scriveva ieri la scrittrice Nadia Terranova sul quotidiano LaStampa, “c’è davvero bisogno di ribadire quanto Verga sia attuale? Guardando alla cronaca, c’è poco che questo scrittore così politico e così poco ombelicale non abbia reso archetipico. Leggiamo di ragazzi morti sul lavoro, e già sappiamo da Rosso MalpeloDi omicidi e femminicidi e uomini che trattano le donne come oggetti di proprietà per cui devono regolare i conti, e ne sappiamo da Cavalleria rusticanaLeggiamo come la sessualità femminile faccia paura fino a essere soppressa, e conosciamo il finale de La Lupa. Di certi avidi disposti a tutto pur di accumulare soldi e proprietà, e non c’è monito migliore di quello che abbiamo letto ne La Roba: le cose materiali non puoi portartele all’altro mondo, se pensi solo a loro rischi di impazzire e parlare con le anatre e i tacchini”.

A chi non è capitato nella vita di investire energie e attese in qualcosa, fosse un amore o un’attività economica, che poi si è rivelata perdente? Il naufragio della Provvidenza, ne I Malavoglia rappresenta la perdita di ogni speranza: il tentativo da parte dell’uomo di migliorare la propria condizione spesso lo conduce alla rovina. 

È crudele il modo con cui Verga descrive nelle sue pagine un’umanità governata dalla legge della selezione naturale, che travolge i deboli dal punto di vista sociale, economico e affettivo, trasformandoli in vinti. C’è però una struggente forza di volontà in chi non si sottomette a quelle stesse leggi di natura e decide di staccarsi dall’“ostrica”, in chi si ribella alla sorte che lo vuole, deterministicamente, perdente.

Verga scrive, proprio nella prefazione a I Malavoglia, “Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini del benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliola, vissuta fino ad allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, che si potrebbe stare meglio”.

Non si può certo negare l’adesione di Verga al Naturalismo e al Positivismo, come testimonia la dedica all’amico Salvatore Farina della novella L’amante di Gramigna, dove l’autore parla di un “documento umano”, “interessante per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore”. La scelta dell’impersonalità diventa dunque per lo scrittore la spinta a guardare con attenzione e con rispetto, più che con distacco, lo svolgersi degli eventi. 

Il miracolo verghiano, se così entusiasticamente possiamo chiamarlo, consiste nel fatto che questo suo ritorno in Sicilia non assuma affatto “connotazioni folkloristiche o documentarie né motivazioni politiche o sociali, ma tenda a presentarsi come un’operazione regressiva vera e propria, che investe le strutture profonde, psicologiche, conoscitive ed esistenziali dello scrittore stesso”. 

Verga sente, vede, prova (per poi trasporre in letteratura, in pagine memorabili) alla stessa maniera dei suoi personaggi più umili, lui nobile è diventato il lucido interprete di quel mondo, perché “Dù su i putenti, cu avi assà e cu nun avi nenti”, due sono i potenti, quelli che hanno assai e quelli che non hanno niente.

MARIA CRISTINA MARRONI