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Sarà presentato questa sera, alle 17, nella corte interna della Biblioteca Delfico, il libro "Cettina e le altre" di Fabio Carlini. Interverranno, oltre all'autore, la dirigente scolastica Letizia Fatigati, lo storico e scrittore Elso Simone Serpentini. Modera la giornalista e presidente della Cpo provinciale Tania Bonnici Castelli

 

Quello di Fabio Carlini è un libro per stomaci forti e presenta molteplici pregi: racconta una realtà spietata che è stata la nostra, quella abruzzese e teramana in particolare, che ci è appartenuta fino a pochi decenni or sono, e lo fa senza edulcorare la crudezza dei fatti, il deserto dei sentimenti, la violenza dei comportamenti.

Sono otto racconti che scioccano, prendono a sberle il lettore, spiattellano la carne e il sangue sulla pagina senza fare esercizio di pietà, perché la pietà non esisteva nel novero dei valori ai quali si rifaceva una società, quale è quella rurale della prima parte del ’900 abruzzese, che si reggeva su un’impalcatura di regole feroci e disumane.

Il medioevo, o almeno la sua parte meno evoluta, è arrivato a lambire il nostro tempo, le nostre famiglie fino a due generazioni fa, e tutti ne abbiamo qualche memoria tramandata dai nonni o da conoscenti anziani.

In quella campagna teramana la vita era feroce, la realtà dura, la famiglia una prigione, i rapporti umani incatenati ad usanze e tradizioni che affondavano nella povertà, ma che dovevano soccombere ai totem dell’onore, della dignità, della rispettabilità sociale, declinati con la rigidità di leggi di natura immutabili quanto inesorabili.

La donna è l’oggetto dell’attenzione, le cui condizioni sono letteralmente di schiavitù: con gli occhi di oggi sembra assurdo aver potuto abitare un tempo così recente e così bestiale nelle relazioni umane, eppure l’aderenza al vero di ciò che viene narrato è esattamente la cifra letteraria che l’autore ha scelto di incarnare, non discostandosi dalle storie che la tradizione orale di paesi e campagne ha conservato, perché il solo rifarsi alle vicende che caratterizzavano la nostra comunità diviene per ciò solo un esercizio di letteratura, tanto ci sembra fantasioso ed irreale per quanto si distanzia dalla nostra realtà odierna.

Abitare in case di terra fatte di una sola stanza, dormire ammassati su pagliericci e tele di juta grezza, mangiare poco e male, lavorare come muli da prima dell’alba a dopo il tramonto, camminare scalzi sui selciati e sulle stoppie, indossare sempre le stesse povere vesti consunte e scolorite, vivere in simbiosi con gli animali da soma e da produzione di latte, carne e uova, questi erano fattori comuni dai quali sembrava impossibile potersi emancipare.

E poi c’era la femmina. Bestia fra le bestie, oggetto fra gli oggetti, risorsa imprescindibile quanto svalutata, merce di scambio fra le famiglie, fagotto da vendere o svendere, proprietà del padre e dei fratelli da consegnare sovente ad un marito che la acquista come una giovenca o un’asina da sfruttare, a cui spezzare le reni e la schiena per sfornare figli, accudire la stalla, cucinare, lavare, portare qualunque peso, dall’acqua, alla legna, dai panni alle vettovaglie.

Otto affreschi, otto episodi che sono altrettanti pugni nello stomaco e cazzotti in faccia: Cettina, una ragazzina rimasta incinta che incarna il disonore della famiglia e viene venduta ad un signore di mezza età in America con un matrimonio per procura, con la consegna di non tornare mai più (e il fardello dell’odio imperituro dei genitori). Nannina, una sedicenne che va a servizio in una casa di signori e diviene il trastullo lussurioso del padrone fascista, il quale finisce per ingravidarla e poi la uccide e la fa sparire perché è divenuta un elemento di disturbo della sua vita. Clarice, una bracciante povera mandata a fare la serva in una famiglia importante, la quale viene stuprata per strada da alcuni manigoldi e passa da essere vittima ad infame perché si rifiuta di abortire il frutto della violenza subita. Bettina, orfana di padre, che diviene preda sessuale dello zio Ciriaco. Doretta, figlia di un fattore crudele, la quale sconta le colpe paterne venendo disonorata con un rapimento e perdendo ogni dignità sociale e familiare, fino a suicidarsi nel fiume Mavone. Carminella, uccisa dal marito perché le aveva dato sei figlie femmine ma non era riuscita a concepire un maschio. Doralice, fidanzata con un ragazzo che parte per il servizio militare biennale, durante il quale lei dimentica il suo promesso sposo e si fidanza con un altro giovane, ma al ritorno il suo ex la accoltella a morte perché lei “è robba sua” e l’altro pretendente avrebbe dovuto sapere che la robba altrui “non si tocca”. Sabella, una ragazza che si innamora di Batino e va a vivere a casa di lui divenendo la vittima di sua suocera, la quale la tormenta per separarla dal figlio che vorrebbe far maritare con un’altra donna che porterebbe una dote, ma l’amore resiste fino alla tragica morte di Batino, con la suocera che pretende di rubarle l’unico figlio per assegnarlo agli zii e spedirla in manicomio, cosicché l’orgoglio della vedova la induce a fuggire con il suo bambino ma trova la morte sulle montagne del Gran Sasso.

Destini tragici, certo. Ma non sporadici, né casuali. Destini figli di un mondo dove una certa idea di onore contava socialmente più dell’amore per le proprie figlie o mogli, dove l’odio era moneta corrente, dove la maldicenza serpeggiava veloce come il vento, dove la crudeltà non conosceva contrappesi, la violenza era la norma per regolare ogni questione, le convenienze guidavano ogni azione.

Questo libro non è altro che la traduzione narrativa della celebre “Trilogia sociale” del pittore abruzzese Teofilo Patini, il quale fotografò mirabilmente la condizione femminile e sociale dell’Abruzzo di fine ottocento nei suoi tre capolavori “Bestie da soma”, “Vanga e latte” e “L’erede”.

Dovremmo tutti immergerci in questa lettura per non dimenticare ciò che siamo stati, come ci siamo emancipati, quando e come siamo usciti da una condizione di minorità mentale, culturale e sociale, lasciandoci alle spalle un’arretratezza spaventosa e le tare ancestrali e belluine alle quali la povertà ci ha condannato per secoli.

Teramo, l’Abruzzo, l’Italia rurale sono stati anche questo e noi abbiamo il dovere del ricordo, sulle cui fondamenta si innalza la costruzione della società del futuro.

MARIA CRISTINA MARRONI