di Maria Cristina Marroni
Trovo utile e urgente la riflessione che il professor Giorgio Caravale , con il suo libro “Senza intellettuali” (Editori Laterza), ha condotto per indagare la frattura – registratasi negli ultimi 30 anni – fra politici e intellettuali, ciascuno dei quali ha ritenuto di poter fare a meno dell’altro. Entrambe le figure hanno subìto un discredito crescente, mano a mano che la recente stagione andava delineandosi come un’età dell’incompetenza.
Da un lato la politica negli ultimi 3 decenni si è allontanata da qualsiasi approfondimento culturale, dall’altro lato il ceto intellettuale si è progressivamente chiuso in se stesso, disinteressandosi alla politica e sovente trovandola urticante, deleteria, addirittura fastidiosa.
Subito dopo l’avvento del berlusconismo, negli ambienti di sinistra ci fu il tentativo di difendere la primazìa della politica, intesa come “una branca specializzata delle professioni intellettuali”, ma la società civile si ribellò chiedendo un cambiamento di paradigma e un rinnovamento della classe dirigente, la quale si chiuse a difesa del proprio ruolo e del proprio status, aprendo lentamente le porte a quello che sarebbe divenuto il Movimento 5 Stelle, intriso di antipolitica e di giustizialismo.
Berlusconi si limitò a mutuare il sistema creato da Bettino Craxi: arruolò un gruppetto di intellettuali (da Melograni a Colletti, da Rebuffa a Pera, da Mathieu a Vertone) che offrì all’opinione pubblica per dare consistenza al proprio inesistente pedigree politico, considerandoli però solo come cortigiani e non come portatori sani di idee da attuare nell’interesse del Paese.
A differenza di Craxi, però, Berlusconi non coltivava alcuna velleità culturale propria, bensì perseguiva il culto per la videocrazia: “Ho più soggezione di Mike Bongiorno e di Raimondo Vianello che di una schiera di intellettuali. Conta di più quanto dice un uomo di spettacolo davanti alle telecamere che cento editoriali sui giornali”.
Si faceva strada l’infotainment, fusione di informazione e intrattenimento, i talk show iniziavano a spopolare e i personaggi televisivi acquisivano visibilità e notorietà tali da renderli appetibili sia dalla politica che dagli ambienti letterari e accademici.
Frattanto il partito della Lega era asceso a posizioni di comando, fondando la sua narrazione, in quella fase, sull’antintellettualismo rivendicato con orgoglio dal suo leader Umberto Bossi.
Anche la svolta neoliberale dei postfascisti dell’MSI fu condotta da Gianfranco Fini allo scopo di far uscire il partito dall’isolamento politico nel quale era rimasto per decenni, ma il leader non riuscì a costruire una solida base culturale sulla quale la neonata Alleanza Nazionale potesse crescere e prosperare (così che il partito naufragò assieme alla credibilità del suo fondatore).
Nel nuovo millennio la scomparsa delle ideologie novecentesche e la crescente personalizzazione della politica fece sì che tutta l’Europa venisse attraversata da un vento di rinnovamento che favorì la nascita di fondazioni culturali, fabbriche di idee, think tank personali finalizzati a capitalizzare il successo elettorale dei singoli leader: da Tony Blair a José Aznar fino a Zapatero, da D’Alema a Bersani, da Enrico Letta a Gianfranco Fini, da Quagliariello a Brunetta, da Bertinotti fino a Matteo Renzi, ciascun capocorrente pretese di crearsi un pensatoio personalizzato, il quale invariabilmente scompariva di volta in volta che l’ispiratore politico tramontava nella sua parabola istituzionale.
Anche in questo caso gli intellettuali vennero strumentalizzati e messi al servizio della costruzione di una narrativa e della crescita del consenso popolare, ma con esiti né duraturi e né significativi per la profondità di analisi e la capacità di indirizzare scelte e trovare soluzioni di merito ai problemi della collettività.
Del resto, sia gli eredi del comunismo che quelli del fascismo furono costretti a fare opera di revisionismo storico, sconfinando con l’uso disinvolto di un passato scomodo che di volta in volta veniva oscurato e modificato, chiamando al capezzale dell’utilitarismo di partito personaggi che entravano a far parte di Pantheon inventati per darsi un tono e uno spessore (Veltroni e Fini chiamarono a sé schiere di icone già trapassate a miglior vita, ascrivendoli impropriamente alla propria carta d’identità partitica).
L’avvento del grillismo sancì definitivamente la precisa volontà di fare dell’inesperienza il principale criterio selettivo della classe dirigente, allontanando ulteriormente il mondo della cultura dal terreno di confronto con i Legislatori e gli Amministratori pubblici.
Dal canto suo, il mondo accademico ha coltivato i difetti congeniti della corporazione universitaria, quali l’autoreferenzialità, il respiro corto, l’iperspecialismo delle ricerche, la ritrosia a confrontarsi con i grandi temi del dibattito nazionale e internazionale.
Questa linea di frizione fra i due mondi distinti e oramai distanti ha condotto al “presentismo”, cioè ad una stagione nella quale si è smesso finanche di utilizzare la Storia come un serbatoio dal quale estrarre personaggi e accadimenti utili a legittimare la propria identità politica, giungendo alla consapevolezza collettiva che la Storia sia solo un fastidioso ingombro del quale fare volentieri a meno.
Il politica si è limitata a gestire il presente, l’ordinaria amministrazione, volatilizzando la propria capacità di incidere sulle coscienze e facendosi schiava di sondaggi e annunci, utili all’inseguimento degli umori e delle mutevoli preferenze dei cittadini-consumatori-elettori.
Tutte queste correnti disgregatrici hanno aperto la via ai cosiddetti “tecnici”, da Ciampi a Dini, da Padoa Schioppa alla Fornero, da Mario Monti a Mario Draghi, gli unici ritenuti capaci di difendere la credibilità, l’impegno e l’onorabilità della politica. Molti di essi erano e sono economisti, sovente purtroppo incapaci di accettare il primato della politica, di limitarsi a informare il decisore e aiutarlo a valutare le conseguenze delle proprie scelte. Ne è conseguito un eccesso di autonomia dei tecnici che è risultato inaccettabile dai politici ed è confluito nella categoria dell’inaffidabilità agli occhi dei partiti.
La gelida diffidenza consolidatasi fra cultura e politica ha reso quest’ultima incapace di immaginare il futuro, di offrire una visione del mondo e di formulare proposte più lungimiranti della gestione del quotidiano. La cultura invece ha sofferto e soffre non solo dell’allergia alla riflessione che si è sviluppata nella società, ma anche del progressivo declino della rilevanza dell’intellettuale nel dibattito pubblico, in parte dovuto allo scemare del prestigio dei tradizionali mezzi di comunicazione.
L’intellettuale, come una monade, si è trovato a costruire la propria carriera slegato dal contesto, prescindendo da qualsiasi appartenenza, alieno da qualsivoglia fidelizzazione a partiti volatili, liquidi, effimeri che hanno reso impossibile la costruzione di un dialogo stabile e di lungo periodo.
L’intellettuale è singolo, mai parte di un gruppo o di un progetto collettivo, e il mondo accademico ha perso di prestigio, manca di uno sguardo lungo, è incapace di dialogare con la società e dunque manca di impatto sull’opinione pubblica.
Il politico non può mai dire tutta la verità perché deve riservarsi alternative, uscite di sicurezza, vie trasversali di fuga e di attacco, perché deve preoccuparsi legittimamente della propria posizione e dell’esercizio del potere, senza il quale non c’è politica.
L’uomo di cultura invece ha per scopo l’onestà intellettuale, lo sforzo di comprendere, e non deve tutelare alcuna posizione di comando. La sua forma mentis è opposta a quella del politico ed è inconciliabile con essa. Se la politica esige poca autonomia e indipendenza di giudizio, e molta obbedienza e affidabilità, è evidente la distanza ontologica con il sapiente che non ha la necessità di illudere e illudersi, di mentire a se stesso e agli elettori, di praticare l’arte del compromesso.
La politica non può e non deve essere misurata con il metro della coerenza intellettuale, non deve limitarsi a recepire il libro dei sogni redatto dai pensatori, ma deve saper vivere il conflitto, il compromesso, miscelare gli ideali con le opportunità (e gli opportunismi).
Il vizio dell’intellettuale di imporre una visione, deve lasciare il posto al desiderio di offrire un contributo affinché si creino le condizioni per realizzare riforme e modifiche efficaci per il progresso della comunità. Finché il trionfo della coerenza personale resterà nell’alveo dei princìpi non negoziabili non ci sarà una riappacificazione fra la cultura e la politica, la quale è nella sua fase “Netflix”, cioè on demand, rivelandosi una piattaforma dalla quale i cittadini pescano a piacimento gli argomenti di immediato interesse, tralasciando ogni interesse per il palinsesto generale.
Occorre ricostruire un dialogo, spezzando il circolo vizioso fra antipolitica e disimpegno: da un lato slegare l’impegno civico e partitico dall’area della faziosità, dall’altro lato lenire il disprezzo nei confronti degli attori politici. Bisogna creare le condizioni per accrescere il numero e la qualità dei luoghi di formazione, di elaborazione e discussione delle idee, degli spazi di autonomia e indipendenza di pensiero, restituendo il prestigio agli Atenei, reintegrando i giornali e le riviste online nel loro ruolo di spazi di riflessione culturale, di funzione critica ma anche costruttiva.
Serve in definitiva una riedificazione di due sfere distinte e autonome che si riconoscano reciproco rispetto, procedendo in direzione opposta agli ultimi 30 anni, durante i quali il discredito e la debolezza dei due mondi si sono tradotti in delegittimazione reciproca.