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Brewo

Funziona più o meno così: leggi su un quotidiano di carta una recensione entusiastica sull'ultimo libro appena pubblicato, il cui merito maiuscolo è di essere un bestseller in Germania, e corri dal tuo libraio di fiducia (nel mio caso: Christian Simonella) per acquistarlo il prima possibile e divorarlo.

Di solito funziona e la magia del recensore si infonde nella tua mente, trasferendosi a ciò che pensi del libro.

Questa volta no.

Stavolta non ha funzionato perché il libro è prosaicamente, con aggettivo da scuole elementari, brutto.

Si tratta di "Ancora venticinque estati", romanzo appena pubblicato da Einaudi di Stephan Schäfer, un giornalista e manager tedesco.

Non che l'idea di fondo non sia intrigante, perché avrebbe i crismi per esserlo: un manager di successo si accorge di stare perdendo contatto con la propria vita, di avere assopito i propri desideri sacrificandoli sull'altare del lavoro, di essere diventato un padre e un marito evanescente.

Un imprevisto, ordito dal destino, gli fa riaprire gli occhi, ricordandogli che - se riuscisse a cambiare rotta - avrebbe ancora 25 estati da godersi prima di morire.

Lo svolgimento, purtroppo, è come la strada per l'inferno: lastricata di buone intenzioni tradotte in parole a volte banali, sovente retoriche, quasi sempre posticce e innaturali, come accade a qualsiasi studente che debba svolgere un compito con il mal di pancia, solo perché l'insegnante glielo impone.

Sulla quarta di copertina viene riportato il giudizio estasiato del settimanale tedesco Die Zeit: "Un libro magico".

Purtroppo l'unica magia che riesce all'autore è quella di provocare il sonno durante le ore di veglia, dipanando una serie di scene che hanno il sapore della pasta scotta (che non può mai tornare al dente).

Dispiace che l'idea fosse meritevole, perché riscrivendolo daccapo avrebbe forse potuto essere un libro migliore.

L'agente del destino, un signore coetaneo del protagonista che si è convertito alla sua vocazione di
contadino, consacrando la propria esistenza alle patate, è una figura parossisticamente di carta, pensata e rimuginata, piuttosto che intuita e disegnata con genuinità di ispirazione.

Frasi e periodare rimarchevoli ce ne sarebbero, ma piuttosto che essere perle incastonate nel loro ambiente naturale, risultano sempre come calamite attaccate ad un frigorifero, souvenir un po' kitsch che stonano con il contesto, forzature che sgomitano per alzare il livello di una narrazione banale che fa della semplicità il metro della noia, non la freschezza acqua e sapone che toglie i filtri alla bellezza e ce la fa godere pura di sorgente.

Il coltivatore di patate funge da detonatore per far esplodere la vita inautentica del protagonista, soverchiato da un lavoro manageriale che lo strema e ne prosciuga la vitalità: "avevo barattato un'addizione di doveri per una sottrazione di libertà".

Schäfer, in maniera didascalica, forse involontariamente rivolgendosi ad un pubblico adolescente, o peggio ancora essendolo ancora come persona prima che come narratore, ci regala quelle frasette motivazionali da convegno di imbonitori o da assemblea di agenti assicurativi, del tipo: "nella vita non si tratta di giusto o sbagliato. La vera decisione è come essere sé stessi".

Oppure quelle perle a buon mercato da tascabile di filosofia orientale che promette di ridare ordine a una vita disordinata: "Createvi dei ricordi! Vi nutriranno durante la vecchiaia"; "dare a ogni giornata la possibilità di essere la più bella della propria vita"; "quante sventure sono state evitate con il semplice non far niente"; "solo chi medita approda a qualcosa di realmente nuovo".

Un romanzo che si definirebbe teutonico nel senso deteriore, cioè a misura dei mangiatori di wurstel e crauti, dei bevitori di birra in infradito che vogliano darsi un tono intellettuale fra un boccale e l'altro, per non apparire troppo limitati al monoargomento del calcio.

Però è un libro che merita d'essere letto come valido esercizio per comprendere quali errori evitare per non scivolare nella stitichezza mentale, quale fraseggio rifuggire per non far sbadigliare il lettore, quale trama imbastire per non ridursi a descrivere la steppa brulla nella sua evitabile monotonia.

Quante che siano le estati che ci restano da vivere, meritiamo di viverle con il meglio che la letteratura ci offre e, grazie al cielo, è infinito il paniere dei romanzi memorabili che potremmo frequentare per essere migliori, per sentirci meglio, per elevarci dal quotidiano, se non dal nanismo intellettuale.
MARIA CRISTINA MARRONI