Pur non essendo appassionato del nominalismo, ho sempre creduto che fosse cosa buona e giusta, oltre che utile, tentare di capire i discorsi mediante l’analisi etimologica delle parole usate, in quanto essa è in grado di consentire di risalire al loro significato originale e puro, non ancora corrotto dalle accezioni e dai cambiamenti di significati apportati dall’uso corrente del linguaggio. “Nomina sunt consequentia rerum”, si diceva e da questo detto derivava un criterio interpretativo (per parlare difficile, “ermeneutico”) da utilizzare come bussola linguistica ed intellettuale. Con questo atteggiamento, assunto fin dai primi anni della mia esistenza, mi sono sempre sentito a disagio di fronte ai mutamenti di senso e di significato che spesso, nel corso degli anni, vedevo stravolgere il significato originario dei termini e delle parole, allontanandocisi a volte da esso le mille miglia nell’uso della lingua corrente, già martoriata via via dallo stillicidio dell’anglicismo.
Una delle parole che più hanno mutato senso e significativo, in una estensione che è andata via via allargandosi dal piano linguistico a quello concettuale, è stata la parola “scienza”. Essa è stata a mano a mano usata in abbinamento e in collegamento con un grandissimo numero di altre parole, indicanti ciascuna un campo specifico dell’attività umana, sia teorica che pratica, anche se sempre in riferimento soprattutto al piano gnoseologico. Pensate a quante allocuzioni e terminologie nuove sono nate premettendo la parola “scienza” ad altri termini in vari ambiti: scienza della società, scienza medica, scienze umane, scienze motorie, scienza psicologica, scienza antropologica, e, infine, scienza della comunicazione. Quest’ultima allocuzione si è tanto affermata da dare nome ad una facoltà universitaria e ad un tipo di laurea, addirittura ad un dipartimento universitario. Sono nati i corsi di laurea in scienza della comunicazione, sono stati prodotti laureati definiti “scienziati della comunicazione” e si è cercato di affermare il principio che essi potessero, anzi dovessero, aspirare a trovare ruoli e impieghi nelle redazioni dei giornali e delle emittenti radio-televisive, o negli uffici stampa di enti pubblici e privati. Questo principio a volte si è trasformato in una pretesa, con relativa protesta degli interessati quando si vedevano a loro preferiti altri soggetti che non avevano nel loro curriculum i loro stessi titoli, tra cui la vantata laurea in scienza della comunicazione.
Già, la laurea in scienza della comunicazione, come se ci fosse una scienza della comunicazione, come se la comunicazione fosse una scienza. Io non credo che lo sia. Per me la comunicazione non è una scienza, né lo può essere, per me è un’arte, un mestiere, se mai una tecnica, e c’è una bella differenza tra scienza e tecnica, così come tra scienza e tecnologia, essendo quest’ultima il trasferimento sul piano pratico di conoscenze scientifiche. Si dirà che anche sul piano della comunicazione ci sono conoscenze scientifiche che possono essere trasferite sul piano pratico, cioè applicate, ma non lo credo. Proprio perché, ancor più che una tecnica, la comunicazione è un’arte. Io parlo di arte della comunicazione, così come parlo dell’arte della memoria, non della scienza della memoria, di arte della pittura e non di scienza della pittura, di arte della scultura non di scienza della scultura. Poi c’è la differenza tra arte e mestiere, perché, di quanti esercitano un mestiere, solo alcuni non sono semplici mestieranti, o artigiani, ma artisti, e anche nel campo dell’arte della comunicazione ci sono i mestieranti, gli artigiani e gli artisti.
Da corso di laurea in scienze della comunicazione, ora si passa al dipartimento di scienza della comunicazione, cioè al nulla del nulla sul nulla. Pensato più per chi ci insegna che per chi ci dovrebbe imparare qualche cosa, anzi, solo per chi ci insegna e non si sa che cosa. Mi fugge cosa ci sia di insegnabile a proposito di comunicazione, e quindi di giornalismo e sul giornalismo, in un’aula universitaria e non in una bottega di giornalismo, come erano le vecchie redazioni dei giornali di provincia, che tanti giornalisti hanno prodotto. Ma queste ultime, che sono state vere e proprie scuole di giornalismo, sono venute a mancare, smantellate, e il giornalismo è diventato l’arte del copia e incolla, errori e refusi compresi, a prova che chi pubblica nemmeno rilegge.
Ah, le accademie! Recentemente ad Atri è capitato che un amico, accademico, mi abbia presentato ad un suo collega qualificandomi come “accademico”. Mi sono quasi offeso (bonariamente) e bonariamente gliel’ho fatto notare. Come? Dare dell’accademico a me, che sono accademico di nulla accademia? Io sono contro tutte le accademie, così come sono contro gli ordini professionali, compreso e primo fra tutti l’ordine dei giornalisti. Inutile, inservibile e dannoso. Ho frequentato e attraversato redazioni di giornali e di emittenti radio televisivi senza mai cedere alla tentazione di iscrivermi a quell’ordine insulso e corporativo (nel senso deteriore del termine). Ho rifiutato la proposta di un amico di avanzare per me una richiesta di cavalierato dicendo che non avrei mai potuto essere cavaliere, non sapendo andare a cavallo. Sono stato insegnante di liceo, ed è stato come andare alla guerra combattendo sul fronte non nelle retrovie. Lascio agli accademici le loro accademie, lascio a chi ritiene che esista una scienza della politica, della comunicazione e di cose che non potranno mai diventare scienza la loro supponenza. Lascio a chi ritiene che esistano le scienze esatte, immodificabili nel tempo, le propria illusione. Continuo a pensare che tutto sia da rivedere periodicamente, anche quella che pare la verità più indiscutibile. Concludo ribadendo che l’espressione “scienza della comunicazione” è pretenziosa e serve a mascherare il tentativo di nobilitare la propria supposta e supponente sapienza. Continuo a credere che il giornalismo sia un’arte e che la si possa imparare solo in una bottega artistica o artigianale, ma che nella maggior parte dei casi sia un mestiere, anzi un “mestieraccio”, e che si possa imparare solo nelle officine, come quelle che erano una volta le redazioni dei giornali, che erano così tanto simili alle “pendìche” dei fabbri e dei falegnami.
Elso Simone Serpentini