“Dicono che si muoia due volte. Una volta quando si smette di respirare e una seconda volta, un po' più tardi, quando qualcuno dice il tuo nome per l'ultima volta”.
Fino al 15 Gennaio 2023, presso l’Arca, Laboratorio per le Arti Contemporanee, la città ospiterà la mostra Banksy a Teramo, a cura di Stefano Antonelli e Gianluca Marziani, per celebrare una delle figure più controverse, popolari e misteriose del panorama attuale contemporaneo.
Miti e credenze si affollano intorno all’artista di Bristol, che non ha mai mostrato il suo volto, ma forse pochi sono stati e sono comunicatori come lui.
Artista molto amato, esaltato dal Sistema dell’Arte (il suo dipinto Devolved Parliament oltrepassa i dieci milioni di euro all’asta Sotheby’s!), eppure assai lontano da esso, perché riconosciuto universalmente dal pubblico per la schiettezza, l’immediatezza, l’ironia, l’onestà intellettuale e figurativa con cui tratta temi di estrema attualità, quasi in un racconto satirico: la guerra, la pace, i diritti umani, l’oppressione, la libertà, l’ambiente, l’amore.
Promossa e finanziata dal Comune di Teramo, organizzata dalla Fondazione Bruno Ballone e MetaMorfosi Eventi, l’esposizione presenta una serie di serigrafie autenticate, come la famosa Girl with Balloon, La ragazza con palloncino, forse la sua immagine più conosciuta, apparsa per la prima volta nel 2004 a Londra e divenuta simbolo di un messaggio di speranza.
Tra le serigrafie esposte spiccano Virgin Mary (Toxic Mary), Bomb Love (Bomb Hugger,) Laugh Now, che riflettono il tema dell’arte e della pace, di contro alla violenza e alla guerra (Afghanistan, Iraq), parlano di impegno civile, interrogano lo spettatore su un’arte che, a discapito della struttura che la ospita, è sempre più pubblica e rivendica il diritto di scendere in strada (Public Art, Urban Art).
Agli albori della Street Art, movimento artistico newyorkese degli anni ’60-‘70, collochiamo infatti già graffitari e giovani talentuosi a “imbrattare” le mura delle città in un clima non solo legato alla denuncia, ma anche e soprattutto alla libertà espressiva, scevra dal carattere di vandalismo propriamente detto, che vanta nell’arte americana nomi come Jean-Michel Basquiat e Keith Haring e ha il corrispettivo nella musica inglese del movimento punk. Alla fine degli anni ’80 la Street Art è condannata perché considerata vandalica, soprattutto in città come Bristol, che ha dato al nostro i natali, costringendo gli attori/interpreti a operare nell’anonimato e nella “sparizione”. Nel XXI secolo essa assume contorni diversi legati maggiormente a tematiche sulla disuguaglianza globale, le criticità del sistema economico, la critica alle multinazionali, la sostenibilità ambientale, le migrazioni, il controllo delle società, la complicità nei confronti delle guerre.
E’ su questi motivi che Banksy opera, come altri giovani artisti, a partire dagli anni 2000, e lo fa dapprima in strada (pensiamo alle serie sui topi -presenti in mostra-, Love Rat, abitanti ai margini di una città sotterranea e sudicia, alla maniera di Gotham City), poi su grandi strutture, realizzando poster, adesivi, stencil e inchiodando il pubblico a una visione provocatoria e realistica della realtà. Attraverso la demistificazione delle immagini e l’ironia Banksy risponde alla violenza con l’amore, alla guerra con la pace, incarnando la filosofia del sociologo Guy Debord secondo cui “Una società è basata sull’immagine che crea una mistificazione della realtà volta a giustificare rapporti sociali diversificati”.
Ancor di più oggi l’atmosfera post-pandemica che stiamo vivendo spinge l’arte a cercare nuove strategie, vie alternative, a costruire orizzonti sulle macerie di solitudine e disagio che opprimono il genere umano e lo portano sempre più a soffocare i propri bisogni, i talenti, il dialogo, la relazione, il rapporto con la natura. Nell’era dei social network e delle connessioni virtuali e digitali la condivisione tra artisti si è esponenzialmente moltiplicata e abbiamo assistito al proliferarsi di eventi e lavori sulla Street Art. L’artista esce dai musei e diviene militante, impegnato nella realizzazione di opere che appaiono improvvisamente nelle città e nelle sue fratture, poi vengono immortalate dalla fotografia e condivise e rimbalzano nella rete globale e sociale della nuova era in cui viviamo.
Love is in the air, oltre a essere il testo di un pezzo degli anni ’70 dell’australiano John Paul Young, è l’immagine manifesto della mostra. Apparsa per la prima volta come stencil in Palestina nei primi anni 2000, rappresenta un’azione anti violenta (l’opera è infatti conosciuta anche come Flower Thrower, Il lanciatore di fiori), mentre, nella sua versione più conosciuta a sfondo rosso, che possiamo ammirare in mostra, descrive l’attivismo americano e britannico delle rivolte universitarie di quegli anni. L’operazione politica che lui fa consiste nel criticare il sistema inserendo elementi inaspettati, fuori dal coro della narrazione: fiori al posto di bombe molotov, bambini che giocano, orsacchiotti di peluche (The Mild Mild West), ponendo lo spettatore davanti a prese di coscienza e riflessioni.
Ripercorrere il lavoro dell’artista e writer britannico vuol dire dare immortalità alle sue opere che, da sempre, hanno carattere politico e mostrano impegno sociale e civico. Pensiamo agli ultimi lavori in Ucraina, sette graffiti realizzati in pieno clima di guerra, come segno di vicinanza al popolo contro la forza militare russa, o alla solidarietà del writer nei confronti dei palestinesi, espressa per immagini, come solo un artista può fare, sulle macerie e i resti della città di Gaza.
Banksy stupisce ed emoziona, usando strumenti artistici differenti come murales, graffiti, serigrafie, stencil, bombolette spray, vernici, quadri, sculture, installazioni, performance. Il cinema addirittura lo racconta con un suo lungometraggio candidato agli Oscar come miglior documentario, Exit Through the Gift Shop, in cui l’artista è regista e attore. Egli mescola vari linguaggi tra cui la musica, che ha una forte influenza sulla sua opera, (vedi la vicinanza con i graffiti realizzati da Robert Del Naja, futuro fondatore dei Massive Attack o le collaborazioni musicali con i Blur, nonché l’esplosione del trip-hop attraverso la voce di Tricky o dei Portishead) o la scrittura (sua la serie di libri Black Books, volumetti come trattati filosofici, ricchi di giochi di parole e doppi sensi).
Banksy si colloca nell’olimpo dei geni dell’arte, in grado di creare relazioni tra immagine, politica, società, mercato, cultura, tecnologia. E’ l’artista più riconosciuto della nostra epoca, che ha saputo fare della sua arte un potentissimo strumento mediatico e di comunicazione, unendo sfere differenti in una società post-moderna, liquida, cara a uno dei più grandi intellettuali del Novecento, Zygmunt Bauman, così come la descriveva il sociologo, secondo cui precariato, incertezza, consumismo, frenesia, mettono in crisi l’uomo ponendolo di fronte ad una riflessione sul superamento dell’individualismo. L’esito è una frattura, una contraddizione, che è quella dell’artista ma anche quella di tutti noi. E nella frattura c’è la salvezza. Lì interviene l’arte, ad accogliere i visitatori, i giovani, non per il solo guardare ma per interagire con essa, in un’opera d’arte totale che coinvolge e trasforma.
Chiara Materazzo