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È stato per anni l’immaginifico del terrore dei teramani. Il palazzo dei mutilati, situato al numero 30 di via Duca d’Aosta, fu il teatro dell’orribile dramma che vide protagoniste Elisa De Benedictis, la “Squartatrice”, e la sua povera vititma, Cesarina Monteverde, da lui uccisa e depezzata per rivalità in amore, per il conteso Gino Urbani, soprannominato “il manichino della Rinascente” dal difensore della Squartatrice, l’avv. Serafino Brigiotti.
Il terribile fatto di cronaca avvenne esattamente settanta anni, nel 1952, in un afoso pomeriggio del mese di agosto (precisamente mercoledì 13) e caratterizzò un’epoca. In quell’appartamento dove il terribile fatto di sangue si consumò, non voleva poi abitare nessuno, perché si diceva che portasse sfortuna, e il coraggioso impiegato della prefettura che, incurante delle superstizioni, decise di abitarci, un pomeriggio di qualche anno dopo rimase decapitato tamponando con la sua motocicletta un camion sulla Teramo-Giulianova.
A poco a poco ci si abituò, nel corso degli anni, soprattutto con il passare delle generazioni, ad alzare lo sguardo quando si passava per quella via per cercare il punto dove la Germani ed Elisa si erano affacciate alle finestre dei contrapposti edifici e la finestra dalla quale, affacciata, Elisa aveva visto arrivare Cesarina, da lei chiamata con un inganno perché cadesse nel suo tranello, e dalla quale si era improvvisamente ritratta per attendere la sua vittima nell’appartamento in cui prestava servizio, quello della Saccomandi, forse dopo aver già impugnato il coltello con il quale avrebbe compiuto l’omicidio e lo scempio del cadavere.
Su quel palazzo oggi si stanno abbattendo le ruspe.
Chi sa perché. Io almeno non lo so.
Avevo sentito dire che lo avrebbero abbattuto.
Non certo per ragioni di sicurezza, perché mi pare che il sisma non gli avesse arrecato danni, quanto meno gravi.
Credo che l’abbattimento sia dovuto ad una delle tanti ragioni che hanno sempre contraddistinto i teramani come “abbattitori” e “demolitori”.
Hanno abbattuto con noncuranza edifici storici che ne costituivano l’identità storica, esempio per tutti il Teatro comunale dell’Ottocento, demolito per costruire una filiale della Standa. Avevano già abbattuto nei secoli precedenti tutto quanto si poteva abbattere per cancellare la propria storia (il magnifico castello di Giosia d’Acquaviva, la Rocca di Frondadola), e continuarono ad abbattere tutto quanto si poteva abbattere, al solo scopo di ricostruire, nel quadro di una metodica riferibile alla speculazione edilizia sempre in agguato.
Temo che anche in questo caso i teramani abbiano scelto e deciso di abbattere solo per ricostruire, per pura speculazione.
Il fatto è che in una città impiegatizia e solo votata al settore terziario, lo spirito imprenditoriale non è mai nato, al contrario che nella vicina provincia ascolana e, solo di riflesso, nella valle del Vibrata, e gli unici imprenditori attivi sono stati “i muratori”, non certamente ispirati dallo spirito “libero-muratorio” che pure nella storia teramana è stato tanto importante (a partire da Melchiorre Delfico). Gli imprenditori del mattone, gli unici capaci di investire del denaro, in combutta e in complicità con la politica, hanno consumato i loro crimini, non meno gravi di quello della Squartatrice, hanno abbattuto edifici classici, medievali e rinascimentali, liberty e caratterizzanti un’epoca solo per poter poi riempire i vuoti creati, a volte senza dover ricorrere nemmeno ad aumenti di volumi per impinguarsi di denaro contante. Rendeva già tanto sostituire il vecchio con il nuovo, stravolgendo così il volto di una città che della sua storia e della sua identità di città capoluogo non ha conservato più nulla.
Ultimi estremi rigurgiti di una imprenditoria edilizia rapinosa hanno continuato a sfruttare l’amore dei teramani per il “moderno” e la loro cecità nel non saper distinguere il vecchio dall’antico, che indusse tante famiglie a disfarsi dei loro mobili in legno massello, ritenuti “vecchi”, per sostituirli con mobili moderni di formica e, ultimamente, con quelli dell’Ikea.
Ripeto: non so se ci sono motivazioni serie che hanno indotto ad abbattere il palazzo della Squartatrice.
Magari ce ne sono, ma non le conosco.
Per questo mi ritengo autorizzato, fino a prova a contraria, a pensare che le ruspe siano state mosse dagli stessi motivi che le spinsero ad abbattersi sul “vecchio” teatro ottocento e che, forse, le porteranno ad abbattersi sul “vecchio” campo sportivo comunale. Teramo non esprime altro modo di concepire lo spirito imprenditoriale se non quello di muovere le ruspe e di mettere un mattone sopra l’altro o di gettare cemento armato nei luoghi “liberati” da edifici ritenuti troppo vecchi e troppo cadenti, senza tener conto che di veramente cadente è “la teramanità”.
Anzi, non è più nemmeno cadente, “la teramanità” è proprio caduta, definitivamente, e ciò che ne rimane lo si trova nel ricordo evocato dalle fotografie antiche, non vecchie, quelle nelle quali si vede la Teramo com’era e che non sarà mai più.

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