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La giornata è fredda e umida; il cielo è completamente coperto, grigio chiaro: sembra carta di riso. Se non fosse così umido, potrebbe nevicare (tarda mattina del 27 gennaio 2023, N.d.R.).

Sono leggermente in anticipo e ne approfitto per rivedere gli appunti segnati sul taccuino elettronico del cellulare in preparazione dell'incontro con Antonio Alleva.

Di Alleva, poeta parco, di pochi ma preziosi volumi concentrati sull'esperienza umana, ho reclamato la presenza perché ho urgenza di sapere da dove arriva questo suo ultimo libro di versi, che in realtà sono due racchiusi per scelta estetica in un unico volume, Cronache di fine Occidente e La Collina del Dingh, Puntoacapo, 2023, che giungono a distanza di sette anni dalla sua ultima pubblicazione, Ultime corrispondenze dal villaggio, Il Ponte del Sale, 2016: molti dei testi contenuti nel dittico sono stati già presentati in video lettura sulla pagina Facebook del poeta(Link: https://bit.ly/3IHgOIU), avvalendosi della collaborazione di molti artisti rinverdendo così una grande tradizione italiana del Primo novecento. Il volume sarà disponibile a fine febbraio.

Sia detto da subito che Antonio Alleva è tra i nostri migliori poeti in lingua, e capace anche di convincenti incursioni nella forma dialettale, quando il suo dettato si fa addirittura così forte da scalzare per potenza la lingua convenzionale, che gli diventa insufficiente compromesso linguistico per dire il suo sentimento del tempo: qui siamo di fronte a uno straordinario caso in poesia – credo unico – di bilinguismo perfetto. Ho già in precedenza analizzato la sua opera (Link: https://bit.ly/3XOYYrG), cui torno con rinnovato interesse considerata la pregiata rarità delle pubblicazioni di questo raffinatissimo poeta.

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AllevaxWhitman diceva di contenere moltitudini, presenze che, in qualche modo del Mistero, partecipavano nella e della composizione delle sue poesie: chi è il poeta?
L'artista oggi è un borderline ricurvo su se stesso capace di un respiro universale. Cito Alessandro Piperno,del quale condivido in pieno questa visione della figura del poeta e, più in generale, dell'artista.


Cosa significa essere poeta in Italia, oggi?
Significa pagare tutto il pegno della scarsa considerazione che, in generale, si ha in questo Paese della poesia. Contrariamente a quanto avviene in Francia, nei paesi anglosassoni e nei paesi dell'est. Qui invece il poeta deve sudare sette camicie solo per riuscire a pubblicare, e spesso con la formula dell'acquisto copie da parte dell'autore, utile a coprire le spese di stampa. Oltre a ciòha da preoccuparsi della gimcana del pane”, ossia rispondere all’assillo del sostentamento economico. Siamo molto distanti da quanto succedeva alla poetessa polacca Wisława Szymborska che,ancor prima di ricevere il premio Nobel, veniva fermata sulle strade di Cracovia per la richiesta di un autografo. Insomma mi pare di poter affermare, almeno questa è la mia esperienza, che da noi il poeta vive quotidianamente il potente conflitto tra lo scrivere e il doversi guadagnare da vivere in altro modo.


È un lavoro quello del poeta?
Se per lavoro intendiamo quell’impegno quotidiano per realizzare le proprie aspirazioni – cosa che nella realtà non succede quasi mai essendo costretti ognuno di noi, artisti o menoa svolgere attività ben lontane da quelle che sono lenostre inclinazioni – e, dall'altro, ottenere il sostentamento economico, ossia il lavoro come lo si intende nelle economie occidentali, allora rispondo decisamente di no.  Il poeta vive da poeta ogni ora della propria vita. Scrivere poesia presume avere il vedere e il sentire da poeta. Insomma, è una sorta di croce e delizia a tutto campo, e senza scampo.


Quando hai incontrato per la prima volta la poesia, in qualità di lettore o uditore?
Ho due immagini precise: la prima risale al tempo delle scuole elementari, quando io e il mio compagnetto del cuore Maurizio andavamo su un piccolo prato fuori dal nostro paese (Nocella di Campli, paese nativo del poeta, N.d.R.), muniti di sussidiario, compensato e matita, e facevamo il ritratto – entrambi avevamo un po' di talento – a Dante Alighieri. Eravamo fortemente incuriositi da quella corona d'alloro e da quel nasone adunco!la seconda immagine, già in piena adolescenza, risale invece a un pomeriggio di settembre, al ritorno dai miei primi due mesi di vacanza in Liguria, da mio zio che viveva a Ospedaletticompletamente rapito da sensazioni e ricordi di quella entusiasmante estate, scrissi allora una struggente lettera a una delle mie innamorate lì conosciute e la lessi al registratore su un sottofondo musicale; ecco, posso dire che, seppur ancora inconsapevolmente, furono questi i primi incontri della mia anima con la poesia. Da lì in poi continuai a scrivere senza più fermarmi.


E qual è il primo libro di poesie che hai scelto e comprato, e qual è l'ultimo?
Da che mi ricordi, il primo acquisto fu un libro diJacques Prévert, ed era alla fine degli anni ’70, per viadi quelle Foglie morte che così bene si intonavano ai tempi che vivevamo. Aggiungo Gibilterra (1991N.d.R.)di Valentino Zeichen e, successivamente, ancora con ZeichenMetafisica tascabile(1997, N.d.R.). Poeta che conobbi. Ma, ancora prima, tengo a ricordare Daniele Gorretcon il volumeSopra campagne e acque(1983, N.d.R.), un libro in prosa poetica, un grande libro che mi entusiasmò molto e di cui mi portai dentro a lungo l’eco emozionale. Ecco, pensandoci ancora meglio, probabilmente non sono proprio i primi, ma sicuramente sono opere che mi hanno formato aggiungendo preziose chicche alla solida base già creata in me da due maestri come Giuseppe Ungaretti e Umberto SabaPoi fu la prosa di Raymond Carver a segnare un punto fondamentale della mia ricerca: quandosulla rivista di Goffredo FofiLinea d’ombra (rivista mensile di arte, cultura, scienza e società fondata a Milano nel 1983 e tuttora editaN.d.R.), che andavo a comperare direttamente alla Feltrinelli di Roma nei primi anni ’80, lessi Di cosa parliamo quando parliamo d’amore,prima pubblicazione in Italia di un racconto di Carver.
Devo
 aggiungere a proposito che Raymond Carver e Wisława Szymborska sono i due fari chemaggiormenteilluminano la mia ricerca più matura.
P
er quanto riguarda l’ultimo libro di poesia scelto e comprato, in realtà sono due: Canzone neraancora della maestra polaccaallora poco più che ventenne,dove raccoglie le sue prime poesie, composte tra il 1944 e il 1948Linea intera, linea spezzata di Milo De Angelis, altro mio maestro di formazione, soprattutto nel suo Biografia sommaria


E quando ti ha chiamato per la prima volta la Poesia; quando hai scritto il tuo primo verso; come è accaduto e dove, visivamente intendo?
Era il 1979 quando cominciai a sentire i primi morsi di una crisi esistenziale che mi sarei portato dietro a lungo, anche sull’ondadei primi segnali di disillusione nell’impegno politico. I cosiddetti anni del riflusso (periodo della storia contemporanea italiana che va dal 1978 al 1982, che segnò la fine delle ideologie per via del terrorismo interno di matrice fascista e comunista, N.d.R.), cioè la disillusione di quel potente sogno di cambiamento che aveva attraversato tutti gli anni ’70, partecipando io stesso alla lotta politicaprima con Lotta Continua (una delle maggiori formazioni della sinistra extraparlamentare italiana attiva dal 1969 al 1976, N.d.R.), poi col Partito Comunista Italiano e, infine, come sindacalista della CGIL.
Ma
, tornando alla domanda, posso dire che era un tardo pomeriggio di quel 1979 – avevo 23 anni, ero da solo e in crisi –quando decisi, all’improvviso, di andare in una cartoleria per acquistare un quaderno perché sentii l’impellente necessità di scrivere. Poi presi la mia vecchia Cinquecento,cercai un posto tranquillo e, chiuso nel mio abitacolo, scrissi le prime cose.E quel quaderno lo conservo ancora.  


E oggi come stai, da poeta affermato quale sei, dentro quello stesso spazio fisico e metafisico insieme che è la poesia, e come ti muovi al suo interno?
Affermato dici, sinceramente non lo so se io sono un poeta affermato. Quello che so è che il mondo quotidiano in cui vivo, esterno e interiore, è praticamente lo stesso dei miei inizi. Stessa fatica quotidiana che oramami costringe da molti anni, pur di scrivere, a sopravvivere con le gimcane per il pane, come le chiamo io – mi occupo di piccola pubblicità locale –; ed è lostesso entusiasmante e anche doloroso mondo interiore che reclama ogni giorno la vicinanza alla poesia, intesa non tanto e non solo come l’atto di scrivere, ma come postura dello sguardo sul mondo e sulla vita; sguardo che – come mi piace dire – è uno sguardo sbilenco che mette a soqquadroNel mio primo libro ricordo un testo che si intitola Scrok e il minareto(in Le farfalle di Bartleby, Tracce, 1998, N.d.R.che ben sintetizza questa disposizione d’animo“Un giorno senza un racconto / persino un suo semplice momentoun’ora / un secondo // un giorno senza poesiail giorno che Scrock pensò: / oggi provo a farne senza // capì a volo che era già partito un numero / senza rete / che egli già si sentiva / un muezzìn senza minareto.”


Dove è che nasce, secondo te, la poesia; dov’è che avviene questo attrito, direbbe Mario Luzi, tra poeta e mondo, che vuol dire tra poeta e natura, tra poeta e uomo, tra l'io e l’umanità, tra pensiero e materia?
Nel caso del poeta, ma dell’artista in genere, se li si osserva, l’attrito – tornando a Luzi – tra l’io e tutto quello che lo circonda, altro non è che l’atavica inquietudine umana che a volte sfocia nella patologia, altre volte invece – e questo è il caso degli artisti – trova una via di uscita che consiste esattamente nella possibilità di utilizzare un linguaggio – di qualsiasi disciplina artistica – che permetta di interrogare più profondamente quell’inquietudine e,per certi versi, di riscrivere, di rinominare il mondo.
Allora, per uscire da questa domanda, trov
o soccorso da Ungaretti rispodendo che la poesia nasce dentrola limpida meraviglia di un delirante fermento (da CommiatoLocvizza il 2 ottobre 1916in Il porto sepolto, 1916, N.d.R.); e chiudo con SzymborskaLa poesia – / ma cos’è mai la poesia? / Più d’una risposta incerta / è stata già data in proposito. / Mai io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo / come alla salvezza di un corrimano. (da Ad alcuni piace la poesia, in La fine e l’inizio, Scheiwiller, 1997, N.d.R.).


La letteratura credo che ancora abbia bisogno di quelsupporto fisico che la contraddistingue da sempreprima con l’utilizzo del papiro e della pergamena e poi, e fino all’oggi,della carta; e sono convinto che sia l’arte meno digitalizzabile di tutte e anche la più materiale: che cos'è per te la carta?
La carta per chi scrive è l’immensa possibilità di ogni vigilia, come scrissi in una mia poesia dal titolo Foglio su una scrivania vuota.

Il titolo di una poesia, per te, quanto è importante; ed è sempre da considerarsi come parte integrante del testo?
Per me il titolo di una poesia è quasi la poesia stessa, nel senso che, come dice Anna Maria Farabbi,il titolo non è un isolotto staccato dal continente del testo, ma è – aggiungo io – il faro di quel testo.  Quindi per me è irrinunciabile.


Il tuo modo di lavorare, così discreto, appartato, che si dà tempo, che concepisce un luogo ideale di attesa e di ascolto, che affastella anni prima di concretizzarsi nella forma di un libro, mi ricorda tanto Francesco Scarabicchi. Lo conoscevi?
L’ho conosciuto. Ed è un poeta che era sicuramente tra quelli che seguivo e che seguo. E lo sento come un’anima a me vicina. Non conoscevo bene il suo modo di lavorare. Per quanto mi riguarda,posso dire che ho composto gran parte della mia opera “appartato nel villaggio (vale a dire a Nocella di CampliN.d.R.), ma anche nell’abitacolo della mia automobile, mia “tana mobile”, e in rari altri luoghi solitari divenuti negli anni delle personalitane elettive.    


Come sei giunto, dopo sette anni da Ultime corrispondenze dal villaggio, a questa ultima doppia pubblicazione, che racchiude il tuo quarto e quinto libro di versi, che mi figuro come un dittico, come fossero due tavolette romane giustapposte, sopra le quali continui a dare notizie al mondo del mondo?
È senz’altro un lavoro di continuità, come per me lo è sempre, di testo in testo. Anche se il doppio titolo di questo nuovo libro segna un passaggio importante della mia opera di ricerca e discrittura,e inaugura un ciclo diverso nella mia vita. Dal Villaggio– luogo carico di emozioni e di lentezza –, mi sposto e amplio il punto di vista sul mondo. Con unosguardopiù politico, dico la mia sulla palese crisi dell’Occidente, da qui il titolo della prima parte del volume, Cronache di fine Occidente; mentre nella seconda parte salgo su una nuova altana, su un nuovo punto di osservazione, La Collina del Dingh.
T
engo a precisare che i miei non sono mai libri concettuali, programmatici, scritti a tavolino. Tutto quello che si raccoglie negli anniè solo il naturale risultato del vedere e del sentire mentre ogni giornosi vive. Quindi è il vivere il collante dei miei libri, non certo l’idea.
Cronache di fine Occidente è da intendersi come la testa di ponte che mi permette di collegare – in senso retrospettivo e, appunto, naturale, cioèsenza ricorrere ad artifici letterari e intellettualistici, che non mi appartengono in alcun modo – Ultime corrispondenze dal villaggio a La collina del Dingh.
La collina del Dinghè un non luogoideale ma molto preciso: è il luogo della domanda che alza il tiro, o almeno ci si prova.

Che significa per un artista, per un poeta, per te, assumere una posizione politica?
Dire con molta chiarezza da che parte della barricata si sta, anche se oggi parlare di barricate potrebbe sembrare anacronistico; secondo me non lo è affatto, perché nonostante i grandi fuochi artificiali del Terzo millennio, che troppo spesso tendono a confondere, i dati di fondo della condizione umana non sono per nulla mutati. Vale per l’individuo, e vale per la società. Ad esempio, ognuno di noi continua a nascere e morire senza volerlo. E, ancora oggi, solo una piccola percentuale di individui ci governa secondo le antichissime regole del danaro e del potere, dettate dalle sirene incantatrici che servono per mantenere tutto questo; e laddove non dovessero bastare le sirene incantatrici, si ricorre ad atti di violenza e soprusi, e perfino alla guerra.

C’è una poesia, tra quelle raccolte in questa nuova pubblicazione, alla quale tieni più delle altre?
Sono tuttefiglie predilette, però te ne citodue per ognuno deilibri,che penso incarninol’anima dell’intera opera come ne fosserole figlie maggiori, e sonoAlma, Bataclan. Prova d’esame con ultimo appello eChe sia benedetto. Chiusura in Cronache di fine Occidente, e L’edera e il canyon eLlu bivjie in La Collina del Dingh.


Sono certo che l’immagine di copertina di questo tuoCronache di fine Occidente e La Collina del Dingh è una tua scelta, perché racchiude il particolare di unopera di Sergio Florà, Bozzetti per un nuovo umanesimo, artista teramano che stimiamo entrambi, mi pare. Mi motivi questa tua scelta, forse anche tu ricerchi un nuovo umanesimo?
Io posso solo sperare che il lettore dei miei libri ben comprenda che tutto il mio modo di essere e di scrivere è un vero proprio urlo assordante che reclama un umanesimo nuovo. E quindi sono onorato e riconoscente all’artista per avermiconcesso di utilizzare per la copertinadi questo libro la suaopera, che ti confermo essere stata una mia sceltama in perfetto accordo con l’Editore.


La poesia, l'arte, salva?
Salvano? Lo spero ardentemente, anche se temo – nonostante il mio prepotente ottimismo – che non siaffatto scontato l’esito della atavica e sempre attualissima lotta tra l’istinto animale e il genio, ossia il diabolico impasto di cui è composto l’uomo che, da che mondo è mondo, lo condanna a essere attore protagonista sia negli orrori che nelle altezze della ragione e dello spirito.

MASSIMO RIDOLFI

Ph.: Copertina diCronache di fine Occidente e La Collina del Dingh, Puntoacapo, 2023, e un ritratto del poeta a firma di Beniamino Procaccini.