Ho lasciato passare di proposito diversi giorni prima di mettere a fuoco e a punto alcune riflessioni su un incontro pubblico tenutosi il due novembre scorso nella sala consiliare della provincia che aveva per tema “Teramo Come” e per obiettivo delineare quale futuro si potesse intravvedere o disegnare per Teramo alla luce del suo passato e del suo futuro. Invitato come relatore a parlare della Teramo del passato, mi sono guardato bene dal tentare di tracciare nel breve tempo concessomi (e chiedo scuso se ho abusato prendendomene di più) una sintesi pur sommaria di tremila anni di storia della città.
Ho pensato di far meglio nel tentare di individuare alcune costanti rivelatesi nel corso dei secoli sul piano politico-sociale, economico e culturale. Ho raffigurato Teramo come un veliero i cui tre alberi fossero costituiti da ciascuno di questi piani e ho palesato l’impressione che l’imbarcazione fosse sul punto di naufragare, sotto il peso di vizi antichi, di gran lunga prevalenti e preponderanti sulle antiche virtù. Ho segnalato in primo luogo la tendenza dei teramani a dividersi sempre in due partiti e a fronteggiarsi accanitamente, con ciascuno dei due pronto ad allearsi con lo straniero pur di aver il predominio sul partito avverso. Ho segnalato che ci sono stati periodi di grandezza alternati a periodi di decadenza, di rinascenze e di nuove ricadute e mi sono affidato all’ascolto del relatore che doveva parlare del presente, il giornalista Antonio D’Amore, per una “lettura” della Teramo presente, non risultata entusiasmante, ed ero assai curioso di sapere dal relatore che avrebbe dovuto parlare della Teramo del futuro quale visione egli avesse della città e quali obiettivi egli perseguisse, considerato che si trattava del sindaco Gianguido D’Alberto, che aveva l’opportunità di fissarne alcuni avendo tra le mani strumenti di governo e di programmazione.
La prima delusione è arrivata dalla sua assenza. Nessun impegno poteva giustificarla, date l’importanza dell’occasione di un confronto e di una riflessione assai utili e la fissazione della data avvenuta da gran tempo.
La seconda delusione è arrivata dall’intervento di chi lo ha sostituito, il vice-sindaco Stefania Di Padova, che pure è politico di valore e di impegno. Ciò che mi ha deluso è stato il corto respiro dell’intervento sulla Teramo del futuro. A chi aveva delineato i segni di un passato dall’ampia lettura e una lettura critica del presente, si è risposto accennando a piccoli progetti quotidiani, quelli che una volta facevano parlare di “politica della fontanella”, rinunciando a priori a considerazioni di ampia visione e di larghe prospettive, sul ruolo, sul destino e sulla vocazione della città di Teramo.
Mi aspettavo risposte su cosa potesse o dovesse essere nel futuro, vicino e lontano, la città, su quale fosse il percorso lungo il quale si intravedevano i teramani avviarsi nel caso in cui fossero riusciti a salvarsi dal naufragio che i lettori del passato e del presente avevano intravisto e intravedevamo. Ma su questo nessuna risposta.
Nessuna visione.
A che avrebbero dovuto affidarsi Teramo e i teramani per salvarsi dal naufragio non è stato detto.
A dirlo non ci si è nemmeno provato.
Nessuna riflessione sociologica, urbanistica, culturale, antropologica, politica, vocazionale sulla Teramo del futuro. Come se si partisse dalla resa, dalla considerazione che la città non avrà un futuro.
Teramo sarà ancora capoluogo?
Dopo aver ceduto tanti comuni per consentire la nascita della provincia di Pescara, con tanti comuni che gravitano ormai verso Ascoli, tanti altri che gravitano verso Pescara e altri addirittura verso L’Aquila, senza più un ruolo e una funzione riconoscibili, con un centro storico desertificato a beneficio di una frazione cresciuta elefantiacamente (San Nicolò), senza più un collegio elettorale, senza una classe dirigente credibile, a quale zattera si affideranno i teramani naufraghi? Teramo rinascerà dalle proprie ceneri grazie a quale sua riconosciuta vocazione? Non ne ha mai avuta una industriale, mancando i teramani di spirito imprenditoriale, al contrario dei camplesi e dei vibratiani; non ne ha mai avuto una commerciale, mancando anche in questo ambito del cennato spirito; non ne ha una turistica, non mancando di attrattive, ma della capacità di metterle a frutto e di esercitare un attivo richiamo presso i convenuti sulla costa; non ne ha una culturale da tempo immemore, essendo i suoi cittadini alieni dalla loro storia ed estranei ai valori storici ed identitari; non ha una vocazione politica, perché ancora oggi come nel passato ha espresso uomini politici solo gregari e non leader; ha avuto il primato dei depositi bancari e una primogenitura bancaria, avendo per prima inventato la struttura creditizia in Abruzzo.
E allora? Adesso che anche le banche e i depositi bancari sono diventati preda dell’altrui rapina, che rimane? Questo avrebbe dovuto dirci il sindaco e, in sua assenza chi ne faceva le veci.
Questo non ci è stato detto.
Ci si è vantati nel passato dei nani che vedevano un orizzonte più lontano perché si erano messi sulla spalle dei giganti. Dobbiamo prendere atto che oggi abbiamo dei nani che si sono messi sulle spalle di altri nani e non vedono un orizzonte molto più lontano. Quanto ai pochi giganti che abbiamo avuto, i teramani di oggi, cittadini comuni e politici, se li sono scordati e al massimo danno uno sguardo indifferente ai loro busti, cimiterialmente allocati in un viale spoglio e ormai periferico. Quale altro futuro ci aspetta che non sia quello fondato sul “mangia e bevi” nei tantissimi esercizi pubblici di cui portiamo un non troppo felice primato?
Se si pensa che Teramo dovrà essere nel futuro una città basata economicamente, socialmente e culturalmente sulle palafitte dei gazebo, dei bazar e dei dehors, ce lo si dica con chiarezza.
Vedremo come regolarci.
Elso Simone Serpentini